Chico Forti, il caso e le bugie dei media italiani

09/07/2012 di John B

Il sistema giudiziario perfetto non esiste. Ogni sistema processuale è sempre il frutto di un compromesso fra opposte esigenze: accusa, difesa, durata del processo, certezza della pena. In Italia, poi, non abbiamo un sistema processuale particolarmente efficiente, perché a suo tempo abbiamo voluto moderare il modello inquisitorio (che aveva portato a terribili errori giudiziari) attraverso innesti presi dal modello accusatorio di matrice anglosassone, creando un ibrido che in qualche modo è riuscito a dare il peggio di entrambi i modelli.

CASI – Proprio negli ultimi anni si sono registrati fallimenti eclatanti (in quanto relativi a vicende che hanno avuto un grande risalto mediatico) ed è ormai un luogo piuttosto comune quello di dire “li prendono e il giorno dopo stanno già fuori”. Si è quindi ingenerata la diffusa sensazione che il nostro processo sia eccessivamente garantista, che abbia maglie troppo larghe e che fra i vari gradi di giudizio e le migliaia di cavilli, ben pochi scontino la giusta pena in carcere. Viceversa si tende a immaginare che all’estero “non si scherza”, che lì i criminali finiscono in carcere senza tante storie e una volta dentro viene buttata via la chiave. Se a questo si aggiunge una certa predilezione per le teorie del complotto, che spesso costituiscono la trama di avvincenti film e romanzi, si finisce per credere che negli altri paesi sia ben più facile che un innocente finisca imprigionato a vita o condannato a morte. In realtà, escludendo quei paesi dove il sistema giudiziario è ancora di tipo inquisitorio, nei paesi più civili il processo penale funziona piuttosto bene e garantisce un accettabile equilibrio fra accusa e difesa, con sentenze definitive emesse in tempi ragionevolmente brevi.

ESEMPI –
questa prospettiva il sistema processuale americano, basato sul modello accusatorio e quindi sulla parità fra accusa e difesa con terzietà del giudice, è generalmente considerato un buon sistema, anche se in Italia è difficile parlarne bene in quanto esso prevede una netta separazione di carriere tra pubblico ministero e giudice, che non è mai piaciuta alla magistratura nostrana. Questa premessa è necessaria al fine di comprendere che il processo americano – proprio per la sua natura accusatoria e non inquisitoria – assicura il pieno esercizio dei diritti e delle garanzie difensive, per cui non è facile che un innocente venga condannato e – anzi – è molto difficile che finisca anche solo processato (al contrario di quanto avviene in Italia). Sgombrato quindi il campo dai pregiudizi, parliamo del caso di Enrico Forti, “Chico” per gli amici, personaggio piuttosto variegato (campione di windsurf, vincitore di quiz televisivi, produttore cinematografico, imprenditore) di origine trentina trasferitosi a Miami, in Florida. Nel 2000 fu giudicato colpevole dell’omicidio di tale Dale Pike e condannato all’ergastolo.

GIUSTIZIA – Da allora familiari, amici e conoscenti hanno avviato una campagna mediatica e giudiziaria sostenendone l’innocenza e chiedendo la riapertura del processo. A questa campagna, riportando soltanto le voci della difesa, hanno aderito tantissimi media italiani.- Anche la Wikipedia italiana ne ha abbracciato la causa, visto che gli ha dedicato una voce che inizia con l’incipit “Attualmente è considerato vittima di uno dei più clamorosi errori giudiziari in America” e termina con l’affermazione lapidaria per cui “nonostante si fosse in grado di dimostrare ampiamente che Enrico Forti era rimasto vittima di un clamoroso errore giudiziario, cinque appelli posti per la revisione del processo sono stati tutti rifiutati sistematicamente dalle varie Corti, senza motivazione né opinione”. E’ bene puntualizzare che ai familiari e agli amici di Forti va riconosciuto il giusto rispetto per gli sforzi che stanno compiendo ed è umanamente comprensibile che lo ritengano innocente. Tuttavia, se si chiede all’opinione pubblica di appoggiare le loro richieste, è lecito approfondire la vicenda nel tentativo di farsi un’idea ragionata, senza alcuna pretesa di sostituirsi ai giudici ma con l’intento di verificare se effettivamente esistono elementi tali da rendere ragionevole l’ipotesi che il processo sia stato viziato. Infatti gli errori giudiziari possono capitare ovunque, ma se cinque diversi tribunali americani hanno rifiutato di accogliere le istanze di appello, diventa difficile pensare che gli Stati Uniti siano entrati in guerra contro Chico Forte.

IL CASO – Quella di Chico è una vicenda molto complessa, per cui conviene partire da quanto è illustrato nel sito creato a sostegno delle sue ragioni: www.chicoforti.com. Il primo approccio non è particolarmente confortante, perché sia Explorer che Firefox segnalano numerose minacce alla sicurezza provenienti dalle sue pagine, per cui è bene tenere l’antivirus pronto e aggiornato. Secondo i suoi sostenitori, Chico aveva rapporti di affari con l’anglo-australiano Anthony Pike (padre della vittima e sedicente proprietario di un albergo a Ibiza) e con un certo Thomas Knott, improbabile istruttore di tennis di origine tedesca (poi rivelatosi un consumato truffatore già condannato in Germania). Sarebbe stato proprio Knott a creare il contatto tra Anthony Pike e Chico, prospettando a quest’ultimo la possibilità di mettere a segno un buon affare acquistando l’albergo dei Pike a Ibiza. Nel 1998, Dale Pike, figlio di Anthony, raggiunse Miami per conoscere Chico e questi andò a prelevarlo dall’aeroporto e gli diede un passaggio fino al parcheggio di un ristorante a Key Biscayne, dove lo aspettavano alcuni amici del padre. Era la sera di domenica 15 febbraio 1998. Chico non entrò nel ristorante e si allontanò subito dopo aver lasciato il giovane. Il giorno dopo il cadavere di Dale fu rinvenuto ai margini di un boschetto nelle vicinanze del ristorante, freddato da due colpi di pistola calibro 22. L’autopsia stabilì che la morte era avvenuta tra le 20 e le 22 di domenica. Interrogato dalla polizia di Miami, Chico negò di aver incontrato Dale e questa menzogna – dettata dalla paura di essere coinvolto nell’omicidio – avrebbe indotto gli inquirenti a ritenerlo responsabile del delitto (se non come autore materiale, come mandante o compartecipe) pur in assenza di qualsiasi altra prova.

IMBROGLI – I sostenitori di Chico affermano che l’italiano era stato vittima di un raggiro ordito da Anthony Pike e da Thomas Knott che intendevano vendergli l’albergo di Ibiza di cui in realtà i Pike non erano più proprietari. Pertanto concludono che Chico non aveva alcun motivo di uccidere Dale Pike e che sarebbe stato incastrato da qualcuno infastidito dalle indagini che l’italiano aveva svolto di propria iniziativa sull’omicidio di Gianni Versace (avvenuto proprio da quelle parti nel 1997) e sul suicidio del suo assassino, tale Andrew Cunanan. Viene anche insinuato il dubbio che Chico Forti sarebbe stato vittima di un complotto ordito dalla stessa squadra investigativa che aveva lavorato sul caso Versace – Cunanan. Questa, sin qui, la versione dei fatti fornita dagli innocentisti e dettagliatamente illustrata sul sito dedicato alla vicenda. Purtroppo (per i sostenitori dell’innocenza di Chico) va rilevato che il sito (e anche vari altri siti e blog diffusi nel Web sul medesimo argomento, anche in lingua inglese) presenta gravi pecche e contraddizioni. La storia della truffa, per esempio, è poco chiara. In una pagina si sostiene, a proposito di Thomas Knott, che i Pike non erano più proprietari dell’albergo di Ibiza: “in realtà continuava la sua “professione” di truffatore (25 accuse in poco più di sei mesi!) e l’ultima fu proprio quella tentata ai danni di Enrico Forti, convocando Anthony Pike a Miami con l’intento di vendere il citato hotel, sebbene non fosse più di sua proprietà da oltre un anno”. In un’altra pagina, però, si afferma, a proposito di Anthony Pike: “Dopo i fatti di Miami l’albergatore continua a gestire l’albergo Pike’s come se il contratto di vendita firmato presso il notaio German Pena non fosse mai stato sottoscritto. Il Notaio afferma invece, che il contratto è ancora valido e la proprietà spagnola dell’albergo è ancora intestata ad Enrico Forti, poiché nessun tribunale ha mai emesso un decreto di annullamento della transazione. Anthony Pike non si è mai costituito parte civile contro Enrico Forti, passo necessario per annullare il passaggio di proprietà. Nel 2005 ha organizzato un lussuoso evento per festeggiare il venticinquesimo anno di fondazione dell’hotel, girando anche un video divulgato su internet”. Ma allora, l’albergo era o non era di Pike? Non è questione da poco, visto che si può parlare di truffa solo se l’albergo viene venduto da un sedicente proprietario che non è tale. Ma soprattutto, l’intero sito espone la propria versione dei fatti (in maniera molto dettagliata e articolata) senza consentire al lettore di verificare di persona ciò che viene affermato. Manca del tutto, infatti, la possibilità di visionare e/o scaricare i documenti originali dell’indagine e del processo, che pure sono nella piena disponibilità della difesa (e quindi di Chico Forti e dei suoi familiari). Anche questa non è cosa da poco, anzi, è un aspetto di importanza fondamentale. Non si può sostenere un’accusa così grave (che insinua un vero e proprio processo viziato sin dalla fase delle investigazioni e prospetta un fumus persecutionis che si estende all’intero sistema giudiziario della Florida) e chiedere l’appoggio dell’opinione pubblica internazionale, senza offrire un’ampia e chiara documentazione che consenta di verificare la fondatezza della sentenza di condanna.

STORIE – Per puro buon senso, già queste circostanze inducono a dubitare dell’attendibilità della tesi innocentista. Tuttavia, grazie a San Google si può provare a colmare la lacuna e a cercare di sentire l’altra campana. Il primo passo è quello di controllare se il tribunale ha pubblicato i documenti del processo. Molti tribunali americani lo fanno per prassi, specialmente le corti federali (e non sarà mai troppo presto quando questa sana abitudine sbarcherà qui in Italia…) ma in questo caso la fortuna non ci arride. Sul sito Web del tribunale di Dade County troviamo la scheda del processo con una serie di dati interessanti, ma non c’è la possibilità di visionare gli atti processuali elencati. Abbiamo comunque una conferma del fatto che il reato contestato fu l’omicidio di primo grado (ossia volontario e premeditato) e che pertanto Chico fu giudicato da una giuria popolare, ossia composta da normali cittadini. E’ questa una circostanza che ha il suo peso: un conto è pensare che poliziotti, pubblico ministero e giudice abbiano complottato per incastrare un innocente, altro conto è pensare che anche l’intera giuria popolare sia stata coinvolta nel complotto. E’ più verosimile ipotizzare che il quadro accusatorio fosse un po’ più consistente di quanto prospettato dagli innocentisti. Purtroppo, in assenza dei documenti originali, dobbiamo cercare di ricostruire il quadro accusatorio basandoci su fonti giornalistiche. Sul Sun Herald dell’8 marzo del 1998 è scritto che i Pike erano proprietari dell’albergo di Ibiza e che la vittima, Dale Pike, aveva raggiunto Miami perché temeva che il padre fosse raggirato ed estromesso dalla proprietà. Ora, se è vero (e così pare) che l’albergo di Ibiza era di Pike, se è vero (e così dicono gli stessi innocentisti) che il truffatore Thomas Knott era vicino di casa di Chico Forti, è più verosimile pensare a un tiro mancino contro Anthony Pike, piuttosto che contro l’italiano. Anche in un articolo scritto dal giornalista Meg Richards di Associated Press, il 14 ottobre del 1999, si sostiene che Dale Pike si precipitò a Miami per impedire che il padre cadesse in un raggiro.

ANCORA – Su Internet si trova anche la trascrizione di un servizio speciale sulla vicenda, andato in onda il 29 maggio 2010, basato su una serie di interviste a vari protagonisti, compresi gli investigatori e lo stesso Anthony Pike. Dal servizio e dalle affermazioni degli intervistati emergono una serie di informazioni interessanti: Chico possedeva varie abitazioni nella zona di Miami, per un valore di ben oltre un milione di dollari; il suo difensore era l’avvocato Donald Bierman (circostanza confermata dai dati presenti sul sito del tribunale), un potente ex senatore (laddove sul sito innocentista si fa invece il nome di una certa Ira Loewy, descritta come incompetente e inaffidabile); Thomas Knott si diede da fare per conquistare i favori di Anthony Pike a colpi di donne, auto lussuose e champagne, che però erano tutti pagati con carte di credito trafugate allo stesso Pike; Dale Pike si recò a Miami perché aveva intuito che il padre era vittima di un raggiro e intendeva vederci chiaro; gli investigatori scoprirono che Forti aveva mentito quando aveva negato di aver incontrato Dale all’aeroporto e misero sotto protezione Anthony Pike perché temevano che l’italiano potesse uccidere anche lui; fu accertato che quando Dale era morto, il cellulare di Forti aveva effettuato chiamate proprio dal punto in cui era stato ritrovato il cadavere; poco prima dell’omicidio Chico e Knott avevano comprato una pistola calibro 22 (lo stesso calibro utilizzato per uccidere Dale Pike) che era stata pagata con la carta di credito di Chico e registrata a nome di Knott; gli investigatori rinvennero documenti che provavano come Anthony Pike avesse venduto il suo complesso alberghiero di Ibiza a Chico Forti per la somma di appena 25.000 dollari; il giorno dopo la morte di Dale, Chico aveva lavato la propria Land Rover, tuttavia gli investigatori riuscirono a trovarvi alcuni granelli di sabbia, che confrontarono con la sabbia presente sulle varie spiagge nell’area di Miami, e che risultarono identici ai campioni raccolti vicino al cadavere della vittima; Thomas Knott accettò di collaborare con le autorità e ricevette uno sconto di pena sulla condanna inflittagli per aver utilizzato fraudolentemente le carte di credito di Anthony Pike; le accuse di truffa contro Chico Forti furono ritirate per strategia processuale, al fine di non appesantire il processo con un reato secondario; la giuria impiegò solo 90 minuti per emettere la sentenza. Mettendo insieme tutte queste informazioni, il quadro accusatorio si fa decisamente più chiaro. Una verosimile ricostruzione è che Chico Forti e Thomas Knott attirarono Anthony Pike (che peraltro era in cattive condizioni di salute in quanto malato di AIDS) a Miami. Mentre il tedesco lo spennava utilizzando le sue carte di credito (il valore sottrattogli ammontò a 100.000 dollari), l’italiano lo indusse a vendergli l’albergo di Ibiza per la ridicola cifra di 25.000 dollari. Quando il figlio Dale giunse a Miami con l’intento di capire cosa stesse succedendo, Chico andò a prenderlo in aeroporto, lo portò in una zona isolata e lo uccise (Thomas Knott aveva invece un alibi di ferro per quella sera) con la pistola calibro 22 che aveva acquistato pochi giorni prima. Chico aveva quindi un movente, aveva mentito agli investigatori nascondendo loro di aver preso la vittima dall’aeroporto, si trovava nel tempo e nel punto in cui era stato commesso l’omicidio e aveva tentato di inquinare le prove lavando la propria autovettura.

QUINDI – Certo, non sappiamo se le cose siano andate veramente così, non sappiamo se Chico agì da solo o se si fece aiutare da qualcuno, non sappiamo se Thomas Knott fu complice dell’omicidio pur non avendovi preso parte direttamente. Però possiamo dire che gli elementi rintracciabili con un po’ di pazienza sul Web raccontano una storia diversa da quella sostenuta dagli innocentisti e rendono decisamente più credibile la sentenza spiegando i ripetuti dinieghi alla riapertura del caso. Regola vuole che qualsiasi persona è innocente fino a prova contraria ma quando si è in presenza di una sentenza definitiva di condanna emessa da una giuria nell’ambito di un processo condotto nel rispetto delle garanzie difensive, l’onere della prova si inverte e spetta agli innocentisti dimostrare che la sentenza è sbagliata. La prima cosa che dovrebbero fare è quella di pubblicare i documenti del processo, altrimenti – sentenza alla mano – è ben difficile dare credito alla tesi di Chico Forti e ai suoi sostenitori.

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