Per i giornalisti italiani non ci sarà quasi mai più il carcere, ma è ancora troppo poco

Una sentenza della Corte costituzionale ha ridiscusso le pene per il reato di diffamazione a mezzo stampa

23/06/2021 di Gianmichele Laino

Ci rendiamo conto, probabilmente, che in tempi di vacche magre anche un risultato del genere possa essere considerato un grande passo lungo la strada dei diritti. Nella giornata di ieri, con una sentenza che rappresenterà comunque un punto di riferimento nella giurisprudenza, la Corte Costituzionale ha stabilito che l’articolo 13 della legge 47/48 (non è un’alternanza di numeri, davvero la legge sulla stampa, nel nostro Paese, risale al 1948), che prevedeva la detenzione da uno a sei anni per i casi di diffamazione a mezzo stampa compiuta con l’attribuzione di un fatto determinato.

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Carcere per i giornalisti, la decisione della Consulta

Dunque, si mette per iscritto in una sentenza una questione che – a dire la verità – ormai era diventata una prassi. Resta invece inalterato il comma tre dell’articolo 595 sulla diffamazione (e in modo particolare quella con l’aggravante della diffusione a mezzo stampa) che continua a prevedere la reclusione da sei mesi a tre anni oppure, in alternativa, il pagamento di una multa. Secondo i giudici, il fatto che ci sia la multa a completare la prima parte della pena, permetterà ai giudici di evitare il carcere per i giornalisti a meno che non si tratti di casi di particolare gravità.

La FNSI ha esultato rispetto a questa decisione e il segretario generale Raffaele Lorusso ha affermato: «La sentenza della Corte Costituzionale ha una portata storica. Ha sancito l’illegittimità costituzionale della pena detentiva per i giornalisti così come prevista dall’articolo 13 della legge sulla Stampa (47/48). Altrettanto importante è il richiamo, in riferimento all’articolo 595 del codice penale, alla giurisprudenza consolidata della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ammette la pena carceraria soltanto nei casi più gravi di diffamazione commessa con istigazione alla violenza o hate speech».

Il ritardo sulle altre questioni legislative sulla stampa

Fin qui, tutto bene. Ma per quale motivo a intervenire sull’argomento è stata la Corte Costituzionale? Semplicemente perché in Parlamento, la sede del potere legislativo, in merito a tutto ciò che riguarda il giornalismo, c’è sempre questa inusitata timidezza (chiamiamola così), che porta proposte che potrebbero migliorare la qualità dell’informazione in lunghe secche di stallo. Il carcere per i giornalisti è stato risolto dalla Consulta, che non ha mancato di sottolineare l’opportunità, da parte delle Camere, di aggiornare la legislazione in materia. Ma chi potrà fare qualcosa, in maniera organica, per le querele temerarie, per l’eccessiva facilità con cui ci si approfitta di condizioni svantaggiose di alcune redazioni per richiedere rimozione di articoli in cui si esercita il diritto di cronaca (talvolta anche solo il diritto di critica), minacciando richieste di risarcimenti spropositate?

Insomma, dal punto di vista legislativo, il parlamento lascia fare alla Consulta. Ma in questo modo le questioni dirimenti saranno sempre rimandate a data da destinarsi. Come il diritto a fare corretta informazione.

Foto IPP/Fabio Cimaglia Roma

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