WAX, la generazione sacrificabile: la storia di Joana

Cos’è Wax? Lo scopriremo nelle prossime settimane. Wax è desiderio e sogno, angoscia e inquietudine. Wax è un film, un aggregatore generazionale, è il racconto di chi parte per lasciarsi tutto alle spalle senza mai scrollarsi l’Italia dal cuore. La settimana scorsa vi abbiamo mostrato un estratto del lungometraggio, una clip che non è passata inosservata, suscitando sentimenti diversi e facendo sgorgare, quasi naturalmente, le vostre storie. Quello che abbiamo scelto oggi è il racconto di una giovane donna. La storia di Joana Fresu De Azevedo. Capirete facilmente perché. Questo è solo l’inizio di un viaggio, che non finirà con l’uscita del film. Anzi.

Alla donna disse:

«Moltiplicherò

i tuoi dolori e le tue gravidanze,

con dolore partorirai figli.

Verso tuo marito sarà il tuo istinto,

ma egli ti dominerà»

(Genesi 3, 14 – 19)

Parafrasando: donna, stacce.

Quel “con dolore partorirai”, credenti o non credenti, lettrici o meno delle Sacre Scritture, ce lo siamo sentite ripetere più volte.

E laddove non ci ha pensato la Bibbia, cinema e televisione ce lo hanno ricordato di continuo ogni volta che la scena si svolgeva in una sala parto: per il piccolo o il grande schermo, una donna che partorisce non è altro che una brutta rappresentazione di Regan McNeil, la sventurata ragazzina de “L’esorcista”. E, si sa, del cinema ci si può non fidare, ma se ce lo dice la TV è la vera verità.

La paura di quel dolore ci accompagna sin da ragazzine. Volenti o nolenti, guida le nostre scelte.

Ma nessuno ci fa ragionare abbastanza sul fatto che quel dolore non è obbligatoriamente una questione fisica.

No, non sto qua a dire che le doglie, il travaglio e il parto non portino ad un certo livello di sofferenza fisica. Me lo ricordo ancora quando 3 anni fa in sala parto c’ero io, con l’immagine di Regan a farmi compagnia. Ma niente che una bella epidurale non possa attutire.

I dolori arrivano dopo.

Quando, dopo essere entrata in sala parto con una laurea e un discreto curriculum accumulato, ne esci che sei per tutti solo una cosa: una mamma. Stupendamente e meravigliosamente appagata nel tenere tra le braccia la tua creatura. Ma lì ti fermi.

Ho voluto mia figlia. Forse l’avrei fatta anche prima dei 30 anni. Ma quel “con dolore partorirai” mi rimbombava nelle orecchie. Come il “pensa prima a studiare” dei miei genitori. O il “garantiamoci prima una buona posizione lavorativa” delle conversazioni con il mio compagno.

E così ho fatto. Mi sono buttata sui libri.

L’ho fatto al liceo, nonostante abbia visto che una delle mie migliori amiche era egregiamente sopravvissuta anche dopo aver partorito a 17 anni appena compiuti.

L’ho fatto all’università, scelta spinta da quella post-adolescenziale convinzione che avrei potuto conquistare il mondo. E al mondo puntavo. Altrimenti quel pomposo titolo del mio corso di laurea, Scienze Internazionali e Diplomatiche, a che mi sarebbe servito?

E così, ottenuta la laurea, mentre le pance e le vite delle mie amiche si riempivano di meravigliosi bimbi, butto tutto nella valigia e parto. Destinazione quasi obbligata: Bruxelles. Uno dei miei sogni che si realizza. Parto bene, in una rete di cooperative attiva nel sociale. Finisco anche meglio, a valutare progetti per i paesi in via di sviluppo a EuropeAid. Proprio là, in quella Commissione Europea a cui ambivo dai 16 anni. Giravo per la città sentendomi a casa. Andavo in ufficio consapevole che mi sarebbero toccate dalle 10 alle 12 ore chiusa davanti al pc. Ma ero lì, dove volevo essere.

Ma arrivano i 30 anni. I maledetti 30 anni. Quelli in cui la parola “futuro” spesso prende il volto di un pargolo.

Unisci l’essere innamorate perse, convivere da 14 anni, sapere che lui lì non ti potrà mai raggiungere. E la forte sensazione che una famiglia non te la farai stando in quell’ufficio. Ricordate “Verso tuo marito sarà il tuo istinto”? Ecco, il mio istinto mi diceva che era lì che dovevo tornare.

Me la ricordo la faccia dei miei referenti quando andai a dissi che me ne andavo. Un misto tra “questa è matta” e “perché io non l’ho fatto?” (20 anni dedicati alla Commissione, zero mariti/compagni, zero figli). Ho nelle orecchie le urla di mio padre che mi infamava in tutte le lingue del mondo, quasi letteralmente. Ricordo la sensazione che non sarei più riuscita a tornare lì.

Ma l’ho fatto.

Sono rientrata nella ridente provincia in cui ci eravamo trasferiti e iniziato a “mettere in cantiere”. Intanto mi sono buttata sul primo lavoro che ho trovato a casa. Io, che ho sempre odiato fare i conti, che finisco a fare l’amministrativo? Eh sì, che ora l’obiettivo è un altro.

E poi è arrivata lei, cuore di mamma. La 3enne.

L’ho guardata il primo giorno sapendo che mai nella vita sarei riuscita ad amare più nessuno in modo così totalizzante e intenso.

Cerco di ricordare quella sensazione ogni giorno.

Perché poi sono arrivati i dolori. Non nel momento del parto. Dopo.

Nel momento in cui hanno trasferito il mio compagno. E io ho detto no al contratto a tempo indeterminato (e quando più mi ricapita) perché le famiglie non si separano e i figli non si fanno crescere lontano dai padri.

Nel momento in cui, due mesi dopo che mi sono licenziata, mentre iniziavo a predisporre il trasloco, ricevo una telefonata in cui il mio compagno mi dice che in azienda hanno solo scherzato, si rimane lì.

E lì il mondo inizia a crollare. Forse anche per i santi che le mie parole hanno iniziato a far traballare.

Vabbè, ma qual è il problema? Sono laureata. Prima della gravidanza ho comunque fatto in tempo a farmi un discreto curriculum, parlo 5 lingue. Vuoi che non appena mi rimetto a cercare non trovo subito un lavoro?

Facciamo crescere la pupa ancora un po’.

E via a giornate scandite dai pianti, dalle pappe, dai pannolini. Dagli occhi che ti si chiudono ad ogni ora. Dai capelli sempre in disordine. Dalla tuta perennemente addosso, chè che ti metti in ghingheri a fare che praticamente l’ultima volta che sei uscita è stato per portare tua figlia dall’ospedale a casa?

Tutti i giorni così, per un anno. E, incredibile forse solo per chi non ha ancora avuto la fortuna (sì, comunque è una fortuna) di esserci già passato, mi piaceva. Non l’ho fatto con sacrificio. Volevo farlo. Sentivo di doverlo a quella meraviglia che avevamo concepito. E che ci regalava tutti i sorrisi e le soddisfazioni di cui potevo avere bisogno in quel momento.

E si arriva a oggi. E all’unico lavoro che ho trovato da quando sono mamma. Faccio la mamma.

Già. Un lavoro dato troppo spesso per scontato. Che prevede la necessità di svolgere molteplici mansioni e di essere dotati di svariate competenze. È un lavoro a tempo pieno, su turno di 24 ore, 7 giorni a settimana.

Niente ferie. Niente giorno di riposo. Scordatevi la malattia.

È un lavoro che prevede diverse ore di guida. Perché se entra un solo stipendio col cavolo che ti puoi permettere due macchine. E allora la mattina ti metti al volante e accompagni pargola all’asilo e compagno al lavoro. Sperando di aver dormito abbastanza, altrimenti il rischio di lasciare lui all’asilo e lei a progettare barche è dietro l’angolo.

È richiesta precedente esperienza manageriale e in amministrazione dei capitali. Quelli del tuo risicato conto, da cui comunque affitto, finanziamenti, bollette, spese mediche e rette dell’asilo dovranno comunque uscire.

Fondamentali le competenze pedagogiche e conoscenza base della psicologia umana. Che altrimenti la bimba ti si annoia e rischi di allevare un futuro serial-killer. Oppure, senza adeguato sostegno psicologico, rischi di diventarci tu un serial-killer.

Necessario saper abbozzare.

Saper guardare le cose con ottimismo. Anche quando ti presenti all’ennesimo colloquio per l’ennesimo lavoro minimamente inerente a quello che hai studiato e fatto e assisti a scene alla “ho visto cose che voi umani”: “5 lingue? No, sono troppe”. “Italiano, portoghese, inglese, francese e spagnolo. Lo parla il russo?”. “E’ laureata? Cerchiamo un basso profilo”. “Assumiamo solo persone con il master”. “Come mai non lavora da due anni? Ah, ha una bimba di 3 anni. Quindi ora vorrebbe farne un altro? Capirà che non possiamo assumerci il rischio”.

E via così.

Ma torni a casa e lei ti sorride. Ti abbraccia. Ti dice quel “ti voglio bene, mamma” che ti fa sciogliere.

E smetti di pensarci.

Smetti di pensare a cosa hai rinunciato, se il risultato è averla.

Smetti di pensare che alla materna puoi iscriverla al tempo pieno solo se entrambi i genitori lavorano. E che, di conseguenza, se tua figlia deve uscire entro le 13, i nonni vivono a centinaia (e anche migliaia) di chilometri di distanza, i soldi per una baby sitter di certo non ti avanzano e tu un lavoro part-time col cavolo che riuscirai a trovarlo, dovrai aspettare ancora un po’.

Smetti di pensare che non prendi più l’aperitivo con gli amici. Che non esci più la sera se non hai nonni o zii in sporadica visita. Che un programma in televisione diverso da Masha e l’Orso o dai Paw Patrols te lo scordi se non in seconda serata (momento in cui sarai già agonizzante sul divano, prima di rantolare verso il letto).

Smetti di pensare a quelle che erano le tue convinzioni adolescenziali secondo cui una donna non potesse essere ridotta solo alla condizione di moglie e madre. Perché ormai sai che la realtà ci si avvicina molto.

Sono stata fortunata. Perché è vero che forse un lavoro non lo ritrovo più. Ma se faccio bene quello di adesso, quello della mamma, magari mia figlia mi vorrà così bene da trovarmi un grazioso ospizio in cui farmi andare quando diventerò vecchia. Magari me la pagherà lei la retta. Perché, chiaro, l’INPS la pensione per la mamma non la prevede. E io so comunque di essere in buona compagnia, perché, diciamolo, chi è il trentenne o quarantenne di oggi che ambisce a ottenere la pensione?

Posso non avere un lavoro. La società può dirmi che ormai sono solo moglie e madre. Possono dirmi che non c’è più posto per me. Che sono sacrificabile.

Ma il sorriso della 3enne e il suo “ti voglio bene, mamma” non me lo potrà togliere nessuno.

Joana Fresu De Azevedo

Share this article
TAGS