Contare fino a dieci prima di dire: «L’Europa è cattiva, ci toglie l’alcol dal vino»

Si tratta di una questione complessa, che prevede diversi fattori: a livello istituzionale e a livello economico

07/05/2021 di Gianmichele Laino

Ma l’oste al vino c’ha messo davvero l’acqua? Attenzione, ragioniamo su quanto è accaduto, mettiamo insieme un po’ di dati per il fact checking e poi cerchiamo di capire se i titoli allarmistici (che in 3,2,1 saranno subito cavalcati da qualche politico ultranazionalista, sovranista e prima gli italiani) corrispondono effettivamente a verità, a una semplice proposta, a una serie di misure decisamente sfumate che, in realtà, possono aprire ulteriori frontiere al mercato enologico. Non soltanto per i Paesi che non sono grandissimi produttori, ma anche per quelli – come l’Italia – che rappresentano una vera e propria eccellenza nel settore. Allora, l’acqua nel vino non è una questione evangelica, ma una proposta circolata in un documento di lavoro a livello comunitario.

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Acqua nel vino per l’Europa, come stanno davvero le cose

Nell’Organizzazione Comune di Mercato (OCM), quell’insieme di norme e di dispositivi che permettono all’Unione Europea di gestire situazioni commerciali legate a singoli prodotti agricoli (sì, c’è una OCM anche per il vino), è venuto fuori un documento che il Consiglio dell’Unione europea ha inviato ai delegati del Comitato speciale per l’Agricoltura. Si tratta di una base su cui il legislatore europeo deve successivamente intervenire – e lo farà in maniera organica alla fine del mese di maggio nel corso di un accordo tra istituzioni comprendenti la Presidenza del Consiglio, il Parlamento e la Commissione europea – e di certo non c’è una opzione forfettaria del tipo: tutti i Paesi dell’Unione Europea dovranno aggiungere l’acqua al vino.

Anzi, la questione è molto più complessa e non è detto che non si aprano delle potenzialità anche per il mercato del vino tradizionale italiano. Ci sono due grandi temi in gioco, uno su cui c’è una contrarietà diffusa (e soprattutto trasversale tra diversi partiti), uno su cui invece c’è possibilità di apertura. L’opzione che scontenta tutti è quella della dealcolazione anche dei vini a denominazione per renderli più bevibili. Si tratterebbe del frutto della pressione dei Paesi a maggior vocazione salutista (e che, soprattutto, non sono grandi produttori di vini di qualità). Una proposta del genere, anche nella peggiore delle ipotesi, potrà essere avanzata dall’Unione Europea, ma potrà essere recepita come meglio si crede dai singoli stati membri. Nessuno, insomma, obbligherà un produttore di Barolo a mettere l’acqua nel suo vino per abbassarne il grado alcolico.

La seconda proposta è quella di produrre delle bevande a base di uva a bassissimo tasso alcolico. In quel caso, si aprirebbe una strada – anche per i produttori tradizionali che volessero cimentarsi in questa impresa, separando in questo modo il vino dalla bevanda industriale frutto di questo processo – per i mercati del Medio Oriente, dove il consumo di alcol non è diffuso come in Europa (per motivazioni di carattere religioso). Insomma, senza intervenire sul vino a denominazione, si potrebbe creare una sorta di mercato parallelo con uno sguardo a un’ampia fetta di consumatori da intercettare. Del resto, è successo con la birra analcolica: la sua produzione non ha affatto inciso sui birrifici tradizionali e il cui mercato, nel solo 2020, ha avuto una crescita del 7,5%.

Senza approfondire e lasciandosi guidare dagli slogan, l’unica cosa a risultare annacquata è l’aderenza alla realtà dei fatti.

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