Aborto: così nell’era di Trump è diventato un diritto a rischio negli USA

La notizia ha immediatamente travalicato i confini americani perché, si sa, ciò che accade negli USA è lo specchio di ciò che avverrà (o rischia di avvenire) in larga parte del mondo occidentale. L’Alabama, storico stato americano, ha vietato de facto l’aborto per legge, anche nei casi limite di stupro o incesto: i medici che lo praticano illegalmente rischiamo fino a 99 anni di carcere. Una legge approvata a maggioranza dal Senato repubblicano e che verrà, quasi sicuramente, impugnata dalle associazioni femministe e da quelle per i diritti civili, ma che si è tramutato nello specchio fedele di un clima. Del resto che la negazione del diritto delle donne ad abortire sia uno dei grimaldelli della politica trumpiana non è certo un mistero.

Quello che però nemmeno il Presidente può al momento oltrepassare è una sentenza della Corte Suprema che fissa al momento i paletti della disciplina sull’aborto negli USA. Cosa dice questa legge?

La sentenza che dal 1973 regola l’aborto negli USA

Per capire come è disciplinata la disciplina dell’aborto negli USA bisogna fare un salto nel passato, più esattamente negli anni ’70, quando la Corte Suprema americana (per sommi capi l’equivalente della nostra Corte Costituzionale) emise una sentenza che continua a far giurisprudenza e polemica, e che è e sotto tiro dei repubblicani ormai da anni.  Fu una ragazza di 22 anni, Norma McCorvey, a fare ricorso contro una legge del Texas che secondo lei violava il suo diritto costituzionale a interrompere la gravidanza. Era il 1970, il responso della Corte arrivò appena 3 anni dopo e diede ragione a Norma. La sentenza, basata sul principio della non ingerenza statale nelle vite dei privati cittadini, legittimava la pratica dell’aborto a livello federale. Ironia della sorte, Norma McCorvey divenne poi una militante anti-antiabortista, ma la causa, denominata “Roe contro Wade” è ancora la base della legislazione americana sul tema. Una base che in molti hanno provato a smontare in ogni modo e che con la presidenza Trump ha visto un rinnovato impulso.

L’obiettivo: restrizioni che rendano impossibile l’esercizio dell’aborto. Il nodo della Corte Suprema

E il tentativo di molta desta repubblicana sembra quello di rendere difficile, se non impossibile, abortire. La sfida alla legislazione nazionale parte insomma dall’America profonda e da stati come l’Alabama. Secondo il Guttmacher Institute, istituto di ricerca sulla salute sessuale e riproduttiva negli USA, nel 2019 sono 29 gli stati americani che hanno introdotto legislazioni restrittive sull’aborto volte a sfidare la sentenza della Corte. Un numero enorme che vede parecchie varianti.

Si va dagli stati che pongono restrizioni ai mesi in cui è possibile effettuare un’interruzione di gravidanza (Arkansas) a stati in cui è stata fatta passare una norme sull’aborto chiamate: “heartbeat law”. In sostanza tutte queste leggi vietano l’aborto dal momento che si riesce a stabilire il battito cardiaco del feto. Peccato che in molti casi ciò sia possibile anche prima delle sette settimane dall’avvenuta gravidanza, ovvero prima che molte donne realizzino effettivamente di essere incinta. E ci sono addirittura limitazioni “creative” come quelle del Nord Dakota. Nel piccolo stato americano è impossibile intervenire nel secondo trimestre dell’avvenuta gravidanza con strumenti come: forbici, morse e forcipi per rimuovere il feto dall’utero, rendendo di fatto l’aborto impossibile.

E il pericolo è che molte legislazioni rimangano in piedi, nonostante i ricorsi alla Corte Suprema. Durante la presidenza Trump la Suprema Corte è virata a destra grazie alla nomina di due giudici consevatori molto vicini alla Presidenza. Insomma. l’assalto alla sentenza del 1973 sembra appena cominciato.

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