“Well, Whatever, Nevermind”: quei 25 anni maledetti senza Kurt
05/04/2019 di Daniele Tempera
A rivederli oggi sembrano fotogrammi di un’altra era. Sui nostri mille schermi ogni decennio ha una sua colorazione, dei propri codici visivi. Sono passati 25 anni dalla scomparsa di Kurt Cobain, eppure il suo mondo non sembra più comunicare più con la nostra era, anche a livello estetico. Sono palcoscenici fumosi, disordinati, sfocati quelli del ragazzo di Seattle, distanti anni luce dall’iconografia social dei nostri tempi, dalle tante star adolescenziali e dalle foto iper-patinate Instagram.
Del resto quando Kurt era vivo, molti di noi erano ancora adolescenti si scambiavano ancora audiocasette. Quelle dei Nirvana passavano di mano in mano come qualcosa di eccitante e proibito. Prima di ascoltarle credo passassi i miei sabati pomeriggio ad acquistare dischi Dance che mi vergognavo di ballare nelle feste, a stipare dischi degli 883 infarciti di storie di periferia e luoghi comuni che avrei odiato e poi rimpianto. I Nirvana furono uno schiaffo in faccia. Non dimenticherò mai il video di “Smeels like teen Spirits” la mattina, prima di andare a scuola. Un condensato di energia, disperazione, rimpianto adolescenziale e impossibile per qualcosa che assomigliava a un amore mai ricevuto. I muri erano crollati, le ideologie si sgretolavano, qualcuno annunciava pomposamente “La fine della Storia” e a Seattle si uccidevano i miti e i colori degli anni ’80 con una rabbia e una disperazione sconosciute al decennio dell’edonismo.
Una “disperata vitalità” per raccontare l’impotenza di una generazione
I Nirvana che si definivano “punk-rock”. Kurt e soci profeti di una rivolta nichilista che non porta da nessuna parte e che tende facilmente a diventare un prodotto di mercato, una posa per sentirsi “cool”. I Nirvana dilaniati da una profonda contraddizione; “Il mondo fa schifo, lo showbusiness fa schifo” e loro sempre sul palco a vomitare poesia e disperazione da vendere come le Cult o i Jeans Levi’s. Nessun fenomeno pop ha segnato la nostra adolescenza come il rock che veniva da Seattle. Una sorta di sussidiario illustrato della giovinezza post-industriale riprodotto e venduto ai quattro angoli del globo, ma capace di sedimentarsi nelle coscienze di giovani inquieti. Nelle loro note c’era la certezza che il modello che ci avrebbe nutrito e poi divorato avesse in sé qualcosa di perverso. I Nirvana erano l’impotenza che si trasformava in rabbia, azione energia. Avremmo avuto venti anni per ammantarla di sarcasmo ed ironia quella sensazione, ma quella “disperata vitalità” rimane lì, senza filtri, senza difese.
Kurt e soci a 25 anni di distanza
Mi chiedo cosa sarebbe di loro ora, a venticinque anni di distanza. I Nirvana al tempo dei social network, in quello spazio dove tutto diventa riproducibile e virale fino a evaporare in battuta o banalità. Il grunge ai tempi dell’overflow informativo e dell’ironia come arma di neutralizzazione del conflitto o della trap nostrana, dove la rivolta si confonde spesso con la vacuità e con i simboli del consumismo capitalista.
Kurt e soci ai tempi di una delle crisi più gravi del secolo, che avrebbe portato molti giovani (e meno giovani) ad identificarsi con il senso di alienazione ed inutilità esistenziale di molti loro testi. Sono passati più di venti anni, e quel “Well Whatever, Nevermind” nasconde tutta la nostra impotenza. Un motivetto che continuiamo a ripetere silenziosamente. Come una poesia impossibile,un Mantra. O come una maledizione.