La persecuzione degli uiguri in Cina e il Covid-19

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I funzionari cinesi hanno impedito la predicazione online

Se c’è una cosa che la Cina ha davvero imparato rispetto alla precedente epidemia di Sars, è sicuramente come gestire una crisi d’immagine. Il durissimo livello di censura, alzato ulteriormente dopo la diffusione del Covid-19, ha prodotto come risultato che ad oggi l’unica fonte d’informazioni dal paese del sol levante sia la rivista filogovernativa Global Times, che gli analisti hanno imparato a interpretare, quando ciò è possibile.



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Uiguri e Covid-19, il punto della situazione in Cina

Così, in nome della presunta apertura forzata dell’epicentro mondiale dell’epidemia, Wuhan, e altrettanto degli aiuti più o meno pelosi inviati in giro per il mondo, insieme a una massiccia dose di “ve l’avevamo detto”, siamo stati disposti a dimenticarci che se il governo avesse ascoltato i suoi scienziati il virus sarebbe stato bloccato già ai primi di novembre. Ma dato che i buoi sono tutti scappati e che comunque stiamo parlando di una superpotenza economica, prendiamo per buono il fatto che loro ne sono venuti fuori e possono impartire lezioni. Pazienza se tutti quei tweet di sostegno al nostro paese, con l’hashtag #forzaCinaeItalia fossero dei bot, dato che i cittadini avevano preoccupazioni maggiori.



Già prima dell’esplosione della pandemia c’era un argomento che proprio non si poteva toccare in Cina. Cioè, uno dei tanti, ma particolarmente spinoso: quello degli uiguri, la minoranza di fede musulmana che vive soprattutto nella regione dello Xinjiang (Sinkiang, in uiguro), estremo lembo nordoccidentale del paese, autonomo dal 1955, ma da sempre in conflitto con l’autorità centrale, che non ne tollera la difformità di costumi e di adesione. Mezzo secolo di tensioni ha portato all’inasprimento delle posizioni, tra reprimende e attentati, che va avanti almeno dagli anni Novanta.

Evidentemente esasperata, anche perché parliamo di una popolazione di almeno 11 milioni di persone, secondo le stime del 2018, la Repubblica popolare avrebbe pensato di dissipare gli aderenti all’etnia uigura, in un modo che al momento potrebbe permettersi solo una potente oligarchia come quella cinese: campi di internamento e “rieducazione” che porterebbero poi ai lavori forzati in altre regioni del paese, o a pochissime alternative.



Fino all’estate scorsa video e foto di deportazioni e detenzioni rappresentavano un motivo d’imbarazzo per il governo cinese, che doveva difendersi dalle accuse delle associazioni per i diritti umani e dalle richieste di embargo degli Usa, che hanno anche strumentalizzato molto la questione per i loro fini.

Solo a novembre del 2019, però, si è arrivati a un punto di svolta, conclusosi poi a febbraio scorso, con la pubblicazione e l’autenticazione dei documenti appartenenti alla cosiddetta Karakax List, dal nome del distretto in cui gli uiguri vengono deportati. Grazie alla delazione di alcuni uiguri sia in patria che in esilio, alla mediazione del World Uyghur Congress, e a uno sforzo di diverse testate, tra cui BBC e Financial Times, il mondo è venuto a conoscenza di numerosi dossier che documentano lo spionaggio delle forze filogovernative cinesi nei confronti della minoranza musulmana.

Uomini e donne spiati perché indossavano un velo o portavano la barba, internati, e in alcuni casi costretti ad accettare dei lavori e a modificare il proprio stile di vita, compreso l’arredamento interno delle case. Daily Mulsim ha ravvisato quello che sembra essere stato un errore di comunicazione proprio tra BBC e FT, perché sembrerebbe sia venuto fuori il nome di uno dei principali delatori, ma il nome sarebbe scomparso, sebbene né i due network né il congresso uiguro abbiano voluto commentare la cosa.

La questione uigura non è divisiva solo per i cinesi, ma per i musulmani stessi, non certo al livello dell’opinione pubblica, che chiede da sempre con forza che si prendano provvedimenti per riparare alle gravi violazioni subite da questa minoranza, ma molto più sul piano politico. Gli uiguri sono turcofoni, eppure non si è rilevata una presa di posizioni nell’entourage di Erdogan, né ad altre latitudini, perché si andrebbero a toccare equilibri molto delicati di rapporti economici e di dialogo su posizioni non paritarie.

In questo senso è paradigmatico l’esempio di un vip, il giocatore tedesco di origine turca Mesut Özil, musulmano, che proprio in conseguenza della pubblicazione della prima parte dei documenti della Karakax list, aveva tuonato: «I musulmani tacciono. La loro voce non si sente», subendo poi una reprimenda simbolica come l’eliminazione dalla versione cinese del famoso videogioco sul calcio Pro Evolution Soccer (Pes) 2020 e la cancellazione dai palinsesti cinesi delle partite del suo club, l’Arsenal.

Uiguri e Covid-19, cosa è successo durante questa emergenza

Cosa è successo agli uiguri durante l’emergenza per il Covid-19? La nostra testata aveva espresso forti preoccupazioni traducendo il commento durissimo dell’attivista per i diritti umani Omar Suleiman, ospitato su AlJazeera. Non è facile ottenere risposte ufficiali. Un veloce scambio di mail con il World Uyghur Congress ribadisce quanto già reso noto da altre organizzazioni dei diritti umani come la Freedom House:  dopo la demolizione delle moschee, le deportazioni, il divieto di assembramenti e di preghiere in pubblico e in privato, «i funzionari cinesi hanno proibito la predicazione online, l’unico modo per le chiese di raggiungere i fedeli tra persecuzione e diffusione del virus». Nulla è dato sapere in più, per il momento. Anche perché, sempre con la scusa del Covid-19, e a un mese esatto dalla pubblicazione della Karakax List, molti giornalisti Usa sono stati espulsi dal paese.