Il problema dei vecchi supporti video e della conversione digitale dei contenuti

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Digitalizzare dei contenuti video in un archivio non è facile, non è un'operazione immediata e - soprattutto - è estremamente dispendioso dal punto di vista economico

Chiudiamo gli occhi e proviamo a riprodurre l’immagine di un archivio. Ce lo immaginiamo polveroso, pieno di faldoni, pieno di registri, immenso nelle sue scaffalature. Cosa succede, però, quando a essere ordinati e schedati non sono contenuti in formato cartaceo, ma contenuti video, frutto di lavoro di produzione e post-produzione, magari su supporti d’altri tempi che non sono facilmente convertibili utilizzando un semplice computer? Se noi consideriamo positivamente il fattore della tecnologia che progredisce, dobbiamo sempre fare i conti con un compromesso: ciò che è stato fatto in passato, nelle pieghe della storia, potrebbe lasciare alcuni suoi pezzi per strada. Pensiamo agli anni Ottanta e Novanta e ai supporti utilizzati per la registrazione dei materiali audiovisivi. Senza andare a scomodare il sistema Ampex (riferibile a qualche decennio prima), basta considerare che – un po’ come avviene oggi per i sistemi operativi di device diversi – ogni produttore aveva un proprio standard e che la comunicazione tra questi due standard era spesso impossibile.



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Supporti video anni Ottanta e Novanta, il problema della conversione

Negli anni Ottanta, ad esempio, si suddividevano il mercato i supporti Betamax e VHS. Ciascuno aveva un proprio videoregistratore, ciascuno una propria telecamera che produceva i materiali audiovisivi. Il fatto di aver scatenato una vera e propria rincorsa commerciale per la produzione di supporti e di strumenti che potessero in qualche modo fissare le immagini su una pellicola (un tempo appannaggio esclusivo delle produzioni cinematografiche o televisive) aveva portato anche a una moltiplicazione delle singole varianti dei due principali formati che si stavano spartendo il mercato.



La moltiplicazione delle varianti Betamax e VHS era legata sostanzialmente a ragioni di ricerca e sviluppo per ottenere una qualità sempre maggiore delle immagini. Tuttavia, a ogni evoluzione corrispondeva – solitamente – anche un funzionamento sempre più specifico, a livello di compatibilità, dei supporti di riproduzione. Con delle premesse del genere, si può facilmente intuire quanto difficile sia, attualmente, individuare un unico metodo di conversione digitale dei materiali registrati negli anni Ottanta e Novanta.

Per convertire Betamax e VHS, oltre ad avere la necessità di essere supportati da un apposito registratore per ciascun formato, c’è bisogno anche di un video grabber, che permette di trasmettere il segnale in digitale e renderlo disponibile per essere archiviato, ad esempio come file MP4, su un computer. Leggermente più semplice, ma comunque abbastanza macchinoso soprattutto se consideriamo le tempistiche a cui siamo abituati, è convertire in MP4 un DVD, ma per farlo occorre comunque dotarsi di un lettore e scaricare un software apposito (qui la varietà, in verità, è abbastanza importante) per poter archiviare digitalmente il contenuto del DVD stesso.



Tempistiche e costi per la digitalizzazione di materiale audiovisivo anni Ottanta e Novanta

Quando si parla di grandi volumi di materiale audiovisivo (se consideriamo lo storico archivio del giornalista Gianni Minà, ad esempio, facciamo riferimento a una attività professionale lunga 60 anni), è facile immaginare come – a livello di infrastruttura e a livello di tempistiche – sia necessario un importante sforzo, nel caso di una digitalizzazione interna. Le procedure per completare il processo da Betamax o da VHS (ma anche da DVD), a seconda della durata del materiale contenuto sul supporto, possono durare anche alcune ore. Se invece la digitalizzazione dovesse essere esternalizzata, i prezzi medi sul mercato per operazioni di questo genere oscillano tra i 15 e i 30 euro per ogni singolo supporto. Un investimento che potrebbe essere difficilmente sostenibile in presenza di grandi volumi di materiale.