Cos’è lo «shadow ban» e perché lo subiscono (anche) le pagine attiviste? Ne abbiamo parlato con Aprite il Cervello

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Aprite il Cervello è una pagina Instagram che conta oltre 713 mila followers: si impegna in tematiche legate ai diritti civili e all'uguaglianza e lotta contro i pregiudizi e gli stereotipi di genere

Lo shadow ban è una conseguenza, ma anche uno status, una condizione, in cui si finisce dopo esser stati bannati. Accade quindi che se il tuo profilo sia stato bannato per via di segnalazioni di massa (o di ragioni più o meno dipendenti da un algoritmo), quando ritorni – una volta risolto il problema e chiarite le ragioni del ban – i tuoi contenuti saranno oscurati e i tuoi followers non vedranno più ciò che pubblichi. Praticamente, ci sei ma non ci sei. Sei un fantasma.



Se sei un profilo che in passato ha violato le linee guida e causato dei danni per la community, allora ben venga che sia così. Se però sei una pagina attivista che è stata erroneamente oggetto di ban, perché i tuoi contenuti devono essere letteralmente silenziati, messi a tacere? Ne abbiamo parlato con il gestore della pagina Instagram @apriteilcervello, attualmente vittima di shadow ban.

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Perché lo shadow ban è «un serio problema per chi produce contenuti sui social»

Aprite il Cervello è vittima ingiusta di questa condizione social, che, però, ha delle ripercussioni anche nella vita offline. Silenziare una pagina seguita da più di 714 mila persone vuol dire silenziare dei pensieri e delle idee comuni a molti. Vuol dire cancellare un portavoce e questo, nell’ottica di un paragone, è un po’ il corrispettivo di ciò che, nella vita offline, rappresentano le dimissioni di un esponente politico. Le conseguenze e il peso dello shadow ban, come tutto, non si conoscono fino in fondo finché si vivono direttamente. «Ne avevo sentito parlare ma non avevo mai compreso fino in fondo quanto potesse essere un serio problema per chi produce contenuti sui social» – ci dice l’admin di Aprite il Cervello. Perché? «La mia pagina è stata chiusa ben tre volte nell’arco di poche settimane, questo è successo a causa di una serie di segnalazioni di massa e a causa del conseguente intervento dell’algoritmo Instagram, che ha mal interpretato una serie di post da me pubblicati».

Per esempio, se in tantissimi decidono di segnalare una pagina perché non ne condividono le idee – nel caso di Aprite il Cervello, progressiste e legate ai diritti civili – Instagram in automatico bloccherà quella pagina, senza troppo interrogarsi se effettivamente quest’ultima stia recando dei danni a qualcuno. Lo stesso accade, per esempio, se pubblichi la foto di una svastica esposta in bella mostra durante un funerale, per denunciare l’accaduto. Seppur nella didascalia ti schiererai apertamente contro l’utilizzo di quel simbolo, Instagram non metterà delle risorse umane ad interrogarsi sull’opportunità o meno del tuo contenuto, ma lascerà che sia il suo algoritmo a stabilirlo. Matematicamente. E matematicamente ti bloccherà.



«Volevo spiegare ad Instagram perché la chiusura del mio progetto fosse stata un errore»

«Appena una pagina viene bannata – ci racconta @apriteilcervello basandosi sulla sua personale esperienza – Instagram dà l’opportunità di fare ricorso via web, permettendo di richiedere la riattivazione dell’account. Tuttavia, questa pratica si dimostra inefficace nella quasi totalità dei casi, dato che il team Instagram non analizza quasi mai i ricorsi presentati da un semplice utente e quando lo fa ci mette mesi o anni». La pagina però oggi è online. Come è stato possibile? «Quando la mia pagina è stata bannata mi sono immediatamente attivato affidandomi ad un team legale per poter avere almeno la possibilità di spiegare ad Instagram perché si fosse trattato di un errore. A seguito di questo intervento il team Instagram ha riattivato la mia pagina, ammettendo il fatto che fosse stato uno sbaglio disattivarla».

Tutto è bene quel che finisce bene, starete pensando. Ma non è così. «Ad oggi la mia pagina è di nuovo online, tuttavia è in shadow ban, vuol dire che è vittima di un ban parziale: la pagina esiste, i contenuti esistono, ma molto spesso vengono oscurati, non compaiono nella bacheca dei miei seguaci e la gente che cerca la mia pagina fa spesso difficoltà a trovarla». 

«Instagram purtroppo non si attiva concretamente per tutelare noi attivisti sui social»

Quando chiediamo ad @apriteilcervello se sia limitante subire questa condizione, ci dice che «lo è senza dubbio. Lo shadow ban è una sorta di ‘punizione’ che Instagram dà a vari account, limitando così la loro visibilità. Il problema in questo caso è che lo shadow ban della mia pagina è dovuto a segnalazioni di massa e alla sbagliata interpretazione dell’algoritmo e non a delle mie effettive azioni nocive per la community di Instagram». Quello che immaginiamo sia l’aspetto più frustrante di tutta questa vicenda è che «Instagram purtroppo non si attiva concretamente per tutelare noi attivisti sui social e non c’è un modo limpido e concreto per poter comunicare col team Instagram che regola i ban totali o parziali».

La questione, dunque, non è semplice e riguarda tematiche tutt’altro che banali. «Noi attivisti sui social ci troviamo spesso a parlare di temi delicati e molto spesso siamo vittime di gruppi estremisti che segnalano in massa con l’obiettivo di buttare giù i nostri profili. Instagram dovrebbe tutelare maggiormente chi si attiva sui social per diffondere consapevolezza. Mi sembra assurdo che per poter avere la possibilità di far ascoltare le proprie ragioni, occorra affidarsi ad un team legale e che non ci sia la possibilità di riavere la propria pagina online subito senza l’intervento di terzi. Credo sia una grande ingiustizia».

Lo shadow ban è un problema. Quali le possibili soluzioni?

«Vi dovrebbe essere una procedura più limpida e lineare per poter mettersi in contatto con il team Instagram a seguito di episodi simili. Per prevenirli, probabilmente, l’algoritmo dovrebbe essere in grado di distinguere quando si ha a che fare con chi diffonde omofobia e con chi invece – con i propri contenuti – intende contrastarla, per esempio».

L’ambizione può sembrare utopica e questo @apriteilcervello lo riconosce: «Mi rendo conto che parliamo di intelligenza artificiale e che questa non sia in grado di scindere le due cose, però a mio parere la chiusura totale di una pagina Instagram o di un qualsiasi progetto web non dovrebbe essere affidata ad un algoritmo, ma dovrebbe richiedere l’intervento di un essere umano a cui – continua – basterebbe leggere i nostri post per capire che il nostro è attivismo e va proprio a condannare determinati atteggiamenti».

Quello digitale, dunque, è un sistema che ammette margini di errore e possiede falle che determinano, come abbiamo visto, conseguenze più o meno evidenti. È pur vero che Meta affianca, al sistema di moderazione basato sull’intelligenza artificiale, anche un team di moderazione umano. Questo gruppo, però, è stato storicamente messo alla prova da un numero ingente di segnalazioni e, in assenza di un rafforzamento dei propri poteri, continua a manifestare delle oggettive difficoltà. Si capisce, dunque, ancora una volta di più come la questione legata allo shadow ban ingiusto di cui abbiamo parlato con Aprite il Cervello sia di ordine prioritario: «Ad oggi, la mia visibilità è ridotta e gli utenti fanno fatica a trovare i miei post. Tutto questo senza un valido motivo».

C’è però da interrogarsi. La soluzione proposta – cioè quella di investire maggiormente sull’ausilio del cervello umano – è l’unica possibile seppur implichi un passo indietro nel percorso della digitalizzazione oppure è necessario investire in una sempre più umanizzazione delle macchine, degli algoritmi? E in tal caso, una macchina in grado di pensare in tutto e per tutto come un essere umano, ci rincuora, ci affascina o ci spaventa?