Roma nun fa la stupida con Daniele De Rossi

06/06/2014 di Boris Sollazzo

Roma, Daniele De Rossi non te lo meriti.

Al taccuino della collega Emanuela Audisio – forse attualmente la migliore narratrice di sport e sportivi del nostro giornalismo – consegna una chiacchierata a cuore aperto, ma il tifoso giallorosso, per troppo amore e ancora più gelosia, non guarda la luna, ma il dito che la indica. Il centrocampista della nazionale dice “Roma ti strega, da qui è quasi impossibile partire. I tifosi ti amano, ti seguono e se cadi aspettano il tuo riscatto”. Ma loro leggono solo “a 20 anni me ne sarei dovuto andare via dall’Italia”, non da Roma, ma da un paese e da un calcio sempre più inquinati, e “avrei giocato più Champions e forse più finali”. Neanche avesse detto di volere la Lazio.

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Il biondo mastino romanista non andò al Real Madrid, anni fa: offrivano 50 milioni di euro a Rosella Sensi e almeno cinque a lui. Rimase. Per poi rinnovare, è vero, per sei e mezzo qualche anno dopo. Diventando il giocatore più pagato della serie A, ora che tutti i campionissimi superpagati han fatto le valigie. “Gioco per chi paga di più”, dice nell’intervista. Fa il disincantato, ma si tradisce quando confessa che ben prima di arrivare a quel rinnovo, nel 2010 in Sud Africa arriva svuotato, alla sua seconda Coppa del Mondo, giocata peraltro da campione in carica. Arriva scarico a causa dello scudetto perso dalla Roma. Quello della sconfitta casalinga contro la Samp di Mannini, Pazzini e Cassano, quello dell’incredibile rincorsa all’Inter, del gol di Toni, della seconda serie di vittorie a due cifre. Quella dell’allenatore testaccino Ranieri e dell’ultima grande stagione della famiglia Sensi. Quella in cui lui parla ai microfoni delle tv con gli occhi lucidi, la voce spezzata, la rabbia incredula di chi pensa, e dice ad alta voce “forse non avrò più un occasione del genere per portare lo scudetto nella mia città”. Non c’erano altri lì, a battersi il petto, a prendersi le responsabilità, a dire che no, non c’entravano gli arbitri. C’era quel ragazzo che nella capitale chiamano Capitan Futuro, nel perenne confronto con Totti. Perché Roma ama schierarsi: da una parte il Pupone, il figlio ideale, il ragazzo perfetto. Dall’altra quello “a cui parte la vena”, il bad boy, quello che quando ha cominciato a giocare male. Guarda un po’, proprio dopo il 2010, forse perché la sua Roma, che passava agli americani, diventava altro, e lui con lei; forse perché una sconfitta della tua squadra del cuore, quando ne vesti la maglia, ti spezza qualcosa dentro. E lui in quei due anni e spicci, veniva infamato a ogni angolo, nella sua città. Soprattutto nelle radio, megafono degli entusiasmi e del megafono giallorosso.

“L’ho visto in un locale, era ubriaco, vicino dove lavoro io. A Roma, all’Eur”. Ma lui, quel giorno era in ritiro con la squadra. A Bergamo. “E’ arrivato al campo completamente fuori fase, ero a Trigoria”. Era il giorno libero di tutta la squadra. Per non parlare degli amici degli amici che hanno raccontato segreti inconfessabili. Forse perché falsi..

Daniele De Rossi, lo leggi nelle righe di quest’intervista, non dice quanto l’abbia ferito essere stato additato, per molto tempo, come il male oscuro della Roma. Quello che ha cacciato Spalletti, quello che sponsorizzava Doni ai danni del “terzo portiere più forte del mondo”, Julio Sergio (autore di un’unica stagione eccezionale e poi scomparso: persino Arthur, in seguito, ha fatto di più, arrivando in finale di Europa League). E’ probabile che abbia fatto entrambe le cose: fu tra chi si sentì tradito dall’allenatore toscano che andò a parlare con il Chelsea e sì, come tanti calciatori, ha sempre avuto amici importanti nello spogliatoio. Che ha sempre difeso a spada tratta, con la stessa generosità con cui si butta in un tackle pericoloso o si produce in una rincorsa e in un recupero difensivo impossibili.

No, lui parla di tifosi “che ti amano, ti seguono, ti aspettano se cadi”. Lui fa una dichiarazione d’amore, ancora più vera e serenità dal momento che, evidentemente, parla con sincerità del suo stare sul mercato e dell’aver voluto l’ultimo contratto in modo che fosse il più ricco possibile o confessando che viaggiare nel mondo e giocare in un altro campionato, sì, sarebbe stato bello. Così come ammette d’essere un figlio “pigro”, tanto legato alla famiglia da aver forse perso qualche occasione per non staccarsi dalla sua Ostia se non per comprare una casa a Campo De’ Fiori (30 chilometri circa la distanza).

Daniele De Rossi non è politicamente corretto: gli chiedi dell’ipocrita e iniquo codice etico di Prandelli? Lui ammette che da allenatore non lo istituirebbe mai, ma che se lo sottoscrivi, ci devi stare. De Rossi è uno che se lo tocchi, fisicamente e non, a volte reagisce. Uno che se risponde a un’intervista, non sceglie risposte preconfezionate. Ma se la Roma non si discute e si ama – vecchio, geniale e mitico detto capitolino -, lo stesso non vale per Daniele De Rossi. Lui dice che Roma ti strega ma finisce, come uno stregone qualsiasi, sul banco degli imputati dell’Inquisizione dell’etere locale. A spiegare perché, è sempre lui. “I tifosi ti considerano una loro proprietà: se perdi e giochi male hai rovinato e distrutto la loro vita. Altro che guadagnare, devi pagare. Per loro devi strisciare e batterti il petto”. Il calcio, e non solo il tifo giallorosso, conosce solo il presente e pensa ai suoi beniamini come vuoti e viziati. Sempre. E meno male che nessuno dei supporter giallorossi si è accorto che il suo migliore amico, per cui ammette persino una futura tenera nostalgia (se penso che è l’ultima grande manifestazione che giochiamo insieme mi commuovo), è Andrea Pirlo. Uo juventino.

A questo fortissimo centrocampista romano e romanista lo criticano per due righe. Senza leggere le altre. E dimenticando che nell’ultimo Napoli-Roma, sotto i fischi e gli insulti incessanti dei partenopei, lui guardò fisso il settore avversario e, pur sconfitto, prese la sua maglia all’altezza del cuore e la mostrò, fiero, la espose, petto in fuori. I fischi – causati dal brutto gesto del compagno Strootman, che aveva sputato verso uno dei settori azzurri, oltre che dalla rivalità nata tra le due città sulle ceneri di uno splendido e rimpianto gemellaggio – si trasformarono, in parte, in applausi e silenzio. Pieni di rispetto. Aumentato con questa intervista: se gli si chiede della solidarietà della Sud a De Santis, lo sparatore del napoletano Ciro Esposito, esprime il suo dissenso, con il ragazzo ancora in lotta per la vita. Non scontato, essendo il primo della rosa di Rudi Garcia a farlo. A dire ai suoi tifosi che hanno sbagliato. A far capire che Roma merita rappresentanti migliori su quegli spalti.
Ora qualcuno lo chiama mercenario, ma per chi crede nella retorica e nell’epica dello sport, questo vuol dire essere una bandiera. Far sventolare i propri colori anche con vento avverso.

Quindi, Roma, nun fa la stupida con Daniele Rossi.

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