La sensazione è che, da qui, non si possa tornare più indietro. E – si badi – non è una considerazione che vale soltanto per questo particolare momento storico, ma che varrà a maggior ragione in tempi di pace. La decisione di Meta di consentire temporaneamente (per una fetta decisamente numerosa di Paesi, non soltanto per l’Ucraina) espressioni di odio, hate-speech, nei confronti dell’esercito russo, di Vladimir Putin, di Alexander Lukashenko e – in generale – del popolo russo quando questo dovesse venire qualificato come “invasore” ci offre la misura, l’ennesima, di quanto i social media e i giganti del tech in generale possano influenzare e direzionare il sentiment generale e l’esito dei dibattiti dell’opinione pubblica nei Paesi occidentali. Cerchiamo di astrarci per un momento dalla notizia in sé e, soprattutto, dal sentire comune e proviamo a immaginare tutto da un altro punto di vista.
LEGGI ANCHE > Facebook consentirà i post di odio contro l’esercito russo, Putin e Lukashenko
Pensiamo a Meta come a una azienda privata che, giustamente, tutela i suoi interessi. Immaginiamo che, un giorno, la stessa azienda dovesse avere motivi di ostilità nei confronti di tutte quelle testate giornalistiche, di tutti quei media, che mettono in evidenza – così come è stato fatto in passato dal gruppo di inchiesta che ha indagato sulle rivelazioni della ex dipendente di Facebook Frances Haugen – eventuali distorsioni nei meccanismi di funzionamento delle sue piattaforme di social networking. Immaginiamo che, su questo tema, alcuni stati o alcune istituzioni sovranazionali iniziassero a prendere provvedimenti e, per questo motivo, fossero visti come ostacoli nel raggiungimento degli interessi dell’azienda stessa.
Sulla base dei propri principi interni – lo abbiamo visto dal caso, da cui siamo partiti, della giustificazione dell’odio online nei confronti dell’esercito russo, dei russi che giustificano l’invasione e delle autorità russe e bielorusse -, potrebbero immediatamente derogare alle proprie regole e alle proprie policies per bloccare, attaccare, penalizzare le testate e gli stati che, in via del tutto ipotetica, dovessero mostrare una critica ostile all’azienda di social network.
Quale sarebbe, allora, la reazione dell’opinione pubblica? Aggiungiamo un altro elemento alla riflessione: qui non stiamo parlando del caso specifico (o di chi abbia ragione nel conflitto russo-ucraino, se mai una ragione esiste in un contesto bellico), ma stiamo parlando del metodo utilizzato nel caso specifico. Che, in quanto metodo, potrebbe essere utilizzato anche in altri e diversi contesti specifici.
Diremo di più. Attualmente questa operazione – ovvero la deroga all’hate-speech nei confronti dell’esercito russo, del popolo russo che giustifica l’invasione e delle istituzioni russe e bielorusse – è stata esplicitata attraverso un commento pubblico del portavoce di Meta a Reuters (agenzia che ha scoperto questa attività in seguito alla consultazione di documenti interni all’azienda). La verità, insomma, è emersa in seguito al cane da guardia dell’informazione – in questo caso rappresentato da Reuters – che ha fatto il proprio lavoro. Ma siamo davvero sicuri che queste stesse deroghe, legate a un semplice cambiamento di modalità operative, ad esempio, del settore della moderazione, non siano già attuate all’insaputa dell’opinione pubblica per altri scopi che nulla hanno a che fare con la guerra?