Milano nel Covid si risveglia una città violenta

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Il racconto in prima persona di Gabriele Parpiglia

Scrivere un articolo che mi riguarda, in prima persona, la maggior parte delle volte è un qualcosa di piacevole. Questa volta purtroppo no. Ricordo quando eravamo in lockdown. In quel periodo, un anno fa circa, l’ex premier Giuseppe Conte aveva chiuso l’Italia (strategia azzeccata ed elogiata e copiata dalle altre nazioni mondiali, ndr), ma soprattutto Conte aveva unito l’Italia dei balconi, dei soccorsi ai meno fortunati, delle cinture ristrette, delle collette per i meno fortunati: l’Italia era piena d’amore per combattere un dolore enorme che ancora oggi non ci ha lasciato.



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Milano, com’è cambiata dopo il covid

Eppure, eppure…qualcosa non girava per il verso giusto. Succedeva che le azioni, forse, erano dettate dalla paura, forse – ai tempi – i risparmi e la speranza aiutavano tutti noi; in realtà eravamo solo ricoperti da una bolla che prima o poi sarebbe esplosa e che, dinanzi a una ricaduta dettata dalla pandemia, avrebbe trasformato i balconi in luoghi non più frequentati, avrebbe trasformato l’amore verso il prossimo, in odio e, se il prossimo fosse riuscito a sopravvivere, l’odio sarebbe stato al raddoppio. Questa premessa la devo fare perché l’argomento mi tocca da vicino. Subito dopo il 4 maggio, quando abbiamo iniziato a respirare “ma” con la mascherina, in giro, lo sguardo della gente, era uno sguardo che iniettava preoccupazione, rabbia, odio, odio social – odio sociale.



Ma andiamo con ordine. Scoppia la pandemia e io inizio a utilizzare i social in modo “positivo”. Capisco che attraverso i social, anche da casa, si potevano fare cose inimmaginabili come “aiutare il prossimo”. E, soprattutto da casa, si possono denunciare quelle situazioni che le tv, i tg, i media, a volte, non raccontano.

Inutile ripercorrere l’anno trascorso tra salvataggi di vite (reali) e ragazzi riportati a casa dall’estero (stavo per perdere anche il mio lavoro a causa di un politico, anzi di un Ministro, ndr) per le mie battaglie; l’elenco delle cose fatte in positivo è lungo e non mi interessa che mi venga riconosciuto il plauso: chi mi ha seguito lo sa. Però veniamo a oggi.



La gente muore di fame. Ok, non devo dire la gente. Troppo generico. Però è così. Se usassi un’altra parola, sarei falso. Il popolo muore di fame, il mio cellulare è subissato di telefonate soprattutto di ristoratori, imprenditori del mondo legato agli eventi e al mondo della notte. Insomma “gli ultimi”. Anche perché non lavorano da quasi un anno. Idem sui social. I messaggi sono identici da nord a sud. Il risultato sempre lo stesso: «Gabriele, aiutaci stiamo chiudendo, abbiamo chiuso la nostra attività. Siamo senza forze, senza speranza».

Quindi se da un lato c’è un’Italia morente, dall’altro cresce un’Italia strafottente (o forse c’è sempre stata e amen). Un’Italia che approfitta dei “buchi” del decreto: esempio, gli hotel aperti possono far cene e feste come se il Covid non fosse presente in un albergo o non andasse a letto alle 22.00, ma alle tre di notte. Questo, un giorno, Giuseppe Conte dovrà spiegarlo. Altro esempio: le strutture Airbnb affittate per feste, ragazzini esaltati con immagini  orribili soprattutto post caos – caso Alberto Genovese (storia che oggi è diventata un circo dove le vittime vanno in tv, si sparano i selfie e annunciano le loro partecipazioni, ndr); insomma c’è un’altra Italia che passa sotto il naso di tutti noi e tutti noi facciamo finta di non vedere. Quasi tutti: io no.

Accendo il caso Genovese, in modo serio prima che prendesse la deriva di un reality mal riuscito (le forze dell’ordine stanno indagando anche su questo), ma soprattutto denuncio assembramenti nelle case, nelle piazze, negli hotel, feste, festini e non risparmio niente e nessuno. Alcool, uso di droghe, immagini degne di Trainspotting 1 – 2 – 3 – 4 – 5, insomma all’infinito. Giovani ragazze, piscine al chiuso e chissà cos’altro c’è nel contorno del sottobosco che prende per il culo l’Italia che soffre.

Denuncio e nel mentre ricevo scontrini battuti nelle 24 ore con un totale di 5 euro, 0 euro, telefonate di chi ha messo aziende in mora, le lacrime di una mia amica che mi dice che tra quattro mesi chiude il ristorante. Ecco: questi esempi moltiplicateli per cento. Denuncio e ci metto la faccia. Trovo ingiusto che ci siano due categorie: chi fotte lo stato vince, chi segue le regole muore.

Faccio il giornalista, faccio informazione, non mi preoccupo di niente e di nessuno. Lotto per le ingiustizie e tifo per la meritocrazia. Cosa cerco? Applausi? Il consenso popolare? I like, come qualcuno mi ha urlato mentre mi spintonava? No, cercavo una chiara e decisa unità d’intenti tra tutte le parti in causa. Tutti chiusi o tutti aperti seguendo le regole: semplice.

In pratica, trovavo scorretto che un hotel comprasse le bottiglie a 200 euro, le rivendesse al doppio e in più guadagnava dalle stanze prenotate e dalle cene che si trasformavano in feste. E a pochi passi da loro, strutture con serrande chiuse che non avrebbero più riaperto. Sono andato diritto come un treno.

Ma anche i migliori treni, a volte, succede che si guastino, non per causa loro. I primi problemi sono arrivati con le minacce sui social. Poco mi importa. Ho superato stalker pericolosi e dichiarati in prima persona, che hanno vomitato ogni cattiveria contro di me, senza aver alcuna minima prova e che ho trascinato in tribunale: figurati che me ne faccio degli insulti social di chi raggira la legge.

Mentre guidavo il treno delle denunce, postando e segnalando alle forze dell’ordine, succede che le minacce cambiano tono. Iniziano ad arrivare sul mio cellulare. I messaggi più carini: «Ti brucio vivo, so dove abiti, ti ammazziamo». E così via. Non mollo. Denuncio e continuo. Fino a quando sempre sul mio cellulare lo scorso 12/13 gennaio i messaggi recitano: «Sappiamo dove abiti, stiamo venendo sotto casa tua». E scrivono davvero il mio indirizzo di casa. Dentro me penso che non lo faranno mai e poi mai. Ma non considero la follia dettata dalla rabbia del periodo Covid. E dopo 25 minuti squilla il citofono: «Scendi che ti seghiamo le gambe». Dalle parole ai fatti. Non accetto la provocazione, chiamo i carabinieri, i furbetti che mi hanno minacciato da un’utenza di cui conosco la proprietà, scappano. Quella sera, che poi è diventata notte, i carabinieri però mi fanno ragionare: «E se lei stava tornando a casa con un amico, con un’amica o con sua madre o solo? Che sarebbe successo?».

Già, che sarebbe successo? Anche perché io sapevo chi erano i malintenzionati e onestamente non vengono fin sotto casa, pre-annunciandosi e poi ti chiedono un caffè. Basta un attimo e la scintilla della follia può crear danni.

Ma non mi interessa. E continuo a denunciare con i miei canali social i furbetti della notte.

Passa un mese esatto da quella notte. Ovvero il 13 febbraio, giorno che non dimenticherò MAI nella mia vita. Ero a pranzo con una persona per motivi di lavoro. All’uscita dal ristorante, un’imboscata, un agguato, vengo aggredito alle spalle. Un colpo via l’altro da tre persone. Fino a quando scappo e provo a rientrare dentro il locale. Almeno così speravo. Perché all’ingresso “un’utenza telefonica” (chiamiamola così le indagini sono in corso) blocca il mio passaggio. Non capisco il motivo. Però mi fermo. È una donna. Gli aggressori ritornano e giù ancora botte. Il resto è un film che per fortuna ho registrato in quegli attimi concitati con il mio smartphone e depositato con annessa querela, che si aggiunge alla precedente con aggravante…eccetera, eccetera e che racconterò al momento opportuno. Per troppo tempo mi sono occupato e preoccupato per gli altri, per gli onesti. Ma nel momento in cui ho rischiato la vita, e ringrazio davvero Dio, mi sono ritrovato solo. Adesso? Ho l’obbligo di fermarmi. La giustizia farà il suo corso. E userò tutte le mie forze nonostante le minacce e le botte ricevute.

Perché direte voi? Perché il dottor Giovanni Falcone diceva: «Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell’esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell’amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere».

Io ho fatto il mio dovere. E… continuerò a farlo.