Hunger Games: Il canto della rivolta (parte I), quant’è noiosa la rivoluzione

Dovrebbero imporre una moratoria alla pessima abitudine di questi anni cinematografici in cui il franchise sembra essere l’unico motore propulsore di ogni scelta artistica e industriale: dividere in due gli ultimi capitoli delle saghe di successo. Immaginatevi Rocky IV, che ancora non sapeva che avrebbe altri capitoli geriatrici, diviso a metà. Pensatevi al cinema, ansiosi di sapere come avrebbe vinto Balboa e bloccati lì, ai piedi del ring, per diversi mesi. Un coito interrotto, a tutti gli effetti. Ecco, da Twilight a Harry Potter, passando appunto per Hunger Games, ci lasciano così, come se fossimo in un serial ma senza la possibilità di aspettare una sola settimana per conoscere gli sviluppi della storia.

Anzi, Hunger Games lo aveva già fatto persino nel secondo film, facendosi perdonare solo per la buona qualità del prodotto.

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JENNIFER LAWRENCE, CHE DELUSIONE -A parte questa irritazione destinata solo ad aumentare nei prossimi anni, con ultime scene monche e prive di ogni epica, Hunger Games che finora ci aveva regalato emozioni, un alto livello tecnico e artistico – regia, recitazione, ma anche scenografia, attori e costumi -, ritmi alti e coinvolgimento, con la prima parte dell’ultimo capitolo pensa bene di annoiarci. A morte. Anzi, neanche quello, perché a miglior vita non ci passa nessuno.

Sarà che non ci sono gli Hunger Games e al modello talent show- metto giovani aitanti in un contesto in cui “ne resterà solo uno” e mi godo lo spettacolo, come ne L’implacabile con Schwarzenegger o in Gamer -, si contrappone una narrazione classica e stanca. Katniss, quella Jennifer Lawrence che ha perso molto del suo carisma e fascino da quando l’abbiamo vista nuda e soprattutto cruda nelle immagini rubate dal suo Cloud, deve diventare la Ghiandaia imitatrice. Già, perché il suo altruismo verso la sorella, gli altri concorrenti e infine il buon Peeta, suo sodale e amore che dovrebbe superare nel suo cuore e nei suoi desideri il fratello dell’uomo più sexy del mondo, Liam Hemsworth (un po’ come se Alessandra Mastronardi, da noi, preferisse Alvaro Vitali a Raoul Bova), l’ha fatta diventare un simbolo del popolo in rivolta. Lei che ha portato a casa la pellaccia per ben due film, con una discreta dose di fortuna, tutta questa voglia di immolarsi per la causa non ce l’ha, anche perché ha già abbandonato e quasi ammazzato il suo spasimante. E lui la ripaga pensando bene di passare al lato oscuro della forza governativa, capeggiata dal feroce Donald Sutherland e intervistato nel Domenica 5 di Capitol City, capitale di questa dittatura modaiola, il grandissimo Stanley Tucci.

HUNGER GAMES, CHE NOIA -E noi questo facciamo per troppe decine di minuti: vediamo interviste tutte uguali, dialoghi adolescenziali di nessun interesse, poi vediamo la Lawrence nelle loro corrucciate e adorabili smorfiette, il bruttissimo e informe Peeta (Josh Hutcherson) fare discorsi catodici alla nazione, Julianne Moore nella parte di una delle leader rivoluzionarie più mosce della storia del cinema, il compianto Philip Seymour Hoffman (a cui il film è dedicato, alla fine) a dare il minimo indispensabile per risultare comunque tra i migliori. Si combatte poco e male, l’azione è soporifera, le scene madri plastificate e poco convincenti. La Lawrence ha scritto in faccia che sta lì solo perché non potrebbe rinunciare in alcun modo a tutti i soldi che le hanno offerto per rimanere Katniss, Hemsworth si prende il ruolo dello sfigato (sì, il fratello nerd di Thor qui prende il due di picche per due ore filate), finisci per appassionarti alla comprimaria Natalie Dormer, qui nella parte di una regista – a occhio decisamente migliore di chi ha portato questo Hunger Games sul grande schermo, il mestierante Francis Lawrence -, ma forse solo perché l’amiamo troppo ne Il trono di spade.

KATNISS, DOVE SEI FINITA? – Sceneggiatura prevedibile, una Lawrence sottotono, la rivoluzione più noiosa mai vista in sala, i ribelli più anonimi che possiate immaginare, gli Hunger Games solo ricordati – dopo il casino che ha messo su Katniss, ovviamente, li hanno sospesi -, tutto concorre a non farci sentire la voglia di vedere il prossimo capitolo. Che magari sarà un capolavoro e quindi ci farà rivalutare anche Il canto della rivolta- parte I, ma ne dubitiamo. Peccato perché i due capitoli precedenti erano di tutt’altro tono e valore, capace di entusiasmarti con quella ragazza volitiva e fragile, capace di grandi gesti eroici e paure umanissime, perfettamente a suo agio nell’armatura fasciante come in quella di protagonista eccezionalmente normale. Anche grazie all’impianto narrativo di Suzanne Collins, dal cui lavoro letterario nasce questo successo cinematografico, unione abile di stilemi classici passati – la tragedia greca- e il più moderno romanzo di formazione, con la castrazione dell’amore fisico (come già succedeva in Twilight), sublimato e consumato pochissimo, per accarezzare i falsi pudori degli spettatori più ipocriti. E una metafora evidentissima della società dello spettacolo moderna, a volte didascalica ma centrata ed efficace.

Non c’è, infine, neanche il divertimento precedente nel godersi l’intrattenimento, la confezione: pensiamo solo alle mitiche sfilate con costumi sfavillanti e show pacchiani, metafore perfette del cattivo gusto attuale, soprattutto sul piccolo schermo.

Si salva solo Woody Harrelson, sempre eccezionale ma qui sotto utilizzato. E il canto da ubriachi che la Lawrence con la sua voce disarmonica ma sensuale e incisiva, fa diventare un inno della ribellione.

Tutto il resto è noia.

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