È morto Giampaolo Pansa, noi vogliamo ricordarlo con il suo articolo sul Vajont

Categorie: Mass Media

Al di là di qualsiasi polemiche sul revisionismo relativo alla resistenza

Giampaolo Pansa, dopo un ricovero di alcuni mesi a causa di una malattia che lo aveva provato, è moto all’età di 84 anni. Uno dei pionieri del giornalismo italiano, inviato per La Stampa, Il Giorno, Libero, Il Giornale, Il Corriere dell Sera e Repubblica – di cui era stato anche vicedirettore – nell’ultimo periodo della sua vita aveva esercitato la sua professione giornalistica per il portale di news TPI, dove aveva provato a far rivivere anche una sua celebre rubrica, il Bestiario.



Giampaolo Pansa è morto

Proprio Il Bestiario era stato un luogo privilegiato dell’attività giornalistica di Giampaolo Pansa: uno spazio irriverente, all’interno del quale inseriva la sua tagliente critica sull’attualità. Nell’ultimo periodo, in seguito alla pubblicazione dell’opera saggistica, Il sangue dei vinti (in cui affrontava il periodo della resistenza con uno sguardo critico e sin troppo severo), è stato oggetto di critiche per il suo revisionismo su quel particolare momento di transizione della società italiana.

Il nostro ricordo di Giampaolo Pansa

Ben lontani dal voler sollevare polemiche su questo aspetto, ci limitiamo a ricordare Giampaolo Pansa con quello che, per comune sentire, è considerato uno degli articoli di cronaca italiana più intensi degli ultimi anni, con un attacco che è rimasto scolpito nella storia. Quel scrivo da un paese che non esiste più può essere considerato una sorta di manifesto e di titolo per un reportage che ha fatto scuola. Era il 1963 e si era appena consumato il disastro del Vajont. Due giorni dopo la tragedia, Giampaolo Pansa scriveva questo dalle colonne de La Stampa:



Scrivo da un paese che non esiste più: spazzato in pochi istanti da una gigantesca valanga d’acqua, massi e terra piombata dalla diga del Vajont. Circa tremila persone vengono date per morte o per disperse senza speranza; sino a questa sera erano stati recuperati cinquecentotrenta cadaveri. I feriti ricoverati a Belluno, ad Auronzo ed a Pieve sono quasi duecento.

Un tratto dell’alta valle del Piave lungo circa cinque chilometri ha cambiato volto e oggi ricorda allucinanti paesaggi lunari. Due strade statali e una ferrovia sono state distrutte; pascoli, campi e boschi sono stati ricoperti di pietre e fango. È una tragedia di proporzioni immani. Dal terremoto di Messina non si era più visto in Italia nulla di così orrendo.



Tutto è accaduto in meno di dieci minuti. Longarone è un piccolo comune della vallata del Piave, a venti chilometri da Belluno. Sino a ieri contava oltre quattromilacinquecento abitanti. Lo sovrastava una diga della Società Adriatica di Elettricità (Sade), finita di costruire nel 1960, alta 261 metri, a doppia armatura, la più alta nel suo genere in Italia e una delle più alte del mondo. (….)

«Una diga nata sfortunata – diceva oggi uno degli scampati alla sciagura -, perché si trova sotto un monte che si sfalda facilmente». (….)

Secondo voci che circolano a Belluno, due anni fa, a Pasqua, si sarebbe registrato un lieve cedimento della roccia sopra la diga, senza conseguenze. All’inizio di questo settembre, poi, un sordo boato avrebbe fatto tremare i vetri delle case di Longarone. In quella occasione la gente disse che era la montagna che si muoveva. (…) Si vedevano frane sulla montagna e alcune famiglie del comune di Erto e Casso erano state invitate a sgomberare per prudenza.

Quanto alcuni temevano è avvenuto ieri sera alle 22,35. Parte degli abitanti di Longarone già dormivano; altri s’erano raccolti nei bar, attorno ai televisori, per assistere alla partita di calcio fra il Glasgow e il Real Madrid; altri ancora si trovavano al cinema a Belluno. Ad un tratto, quelli che erano svegli udirono un sordo boato e avvertirono come un soffio fortissimo di vento che spazzava la vallata. Una enorme falda della montagna era precipitata nel bacino del Vajont.

Un’onda gigantesca si sollevò sopra la diga e tracimò, riversandosi sul corso del Piave con una violenza spaventosa. A giudicare dai segni lasciati sui versanti, doveva essere alta più di cento metri. La diga era robusta e resistette. Dopo avere raso al suolo le frazioni di Rivalta e Villanova, l’enorme massa di acqua e roccia si schiacciò contro il concentrico di Longarone e la frazione di Pirago, portandosi via case, strade, ferrovia, argine, alberi. Un istante dopo l’ondata si lanciò a valle, investì la borgata di Faè e proseguì la sua corsa rovinosa verso Belluno e Ponte nelle Alpi.