Il “Democratellum” non garantisce governabilità

Di Lorenzo Cuocolo*

Proprio ora che il Movimento 5 Stelle si dice disponibile alla trattativa con Renzi sulla legge elettorale, le probabilità di un lieto fine sono fortemente condizionate dai risultati dei referendum svolti in rete. Difficile giustificare un accordo con l’asse del male, quello che sostiene il governo, per una legge elettorale condivisa. Difficile non bollarlo come inciucio, per di più partorito in streaming, come ora chiede il perfido Presidente del Consiglio.

Chiusura della campagna elettorale del Movimento 5 Stelle

E allora, dubitando di possibili punti di incontro, può essere interessante studiare la proposta a cinque stelle nella sua purezza.

Si tratta, ancora una volta, di un mix di modelli stranieri. L’impianto ricorda molto quello spagnolo, anche se le leggi elettorali producono effetti assai differenti a seconda delle condizioni politiche e istituzionali nelle quali sono calate. E, così, è dubbio che in Italia si otterrebbero gli effetti tendenzialmente bipolari che produce il sistema spagnolo.

Il cd. Democratellum ha un impianto proporzionale classico, non corretto da alcun premio di maggioranza. Le circoscrizioni sono definite “intermedie”: una ogni 2-3 province. La dimensione circoscrizionale ed il sistema di riparto dei seggi dovrebbe consentire, a detta degli autori, uno sbarramento naturale e un effetto maggioritario a vantaggio del primo partito. Probabilmente è vera la prima affermazione: il sistema dovrebbe garantire una rappresentanza parlamentare solo ai partiti che superino il 4-5% dei voti, assicurando anche la sopravvivenza dei partiti fortemente radicati solo in alcune aree del Paese. Non convince, invece, il presunto effetto selettivo: la proposta del M5S non favorisce il bipolarismo. Se questo già ci fosse, potrebbe forse continuare a funzionare. Ma se non c’è (ed è il caso italiano) non viene favorito dai meccanismi elettorali. Da un lato, infatti, la dimensione medio-grande delle circoscrizioni mitiga il possibile effetto maggioritario. Dall’altro, manca qualsiasi ipotesi di premio di maggioranza. E, dunque, il rischio è che dalle urne non esca un vero vincitore, con i numeri per governare cinque anni. Ciò, verosimilmente, produrrebbe trattative e accordi dopo le elezioni. Non a caso la proposta di legge elimina la possibilità di coalizioni prima del voto. Un sapore vagamente retrò, che non sembra in linea con il diffuso desiderio di risultati elettorali chiari e maggioritari.

Un punto senz’altro condivisibile è il secco divieto di candidature plurime, uno dei mali più subdoli del vecchio Porcellum. Poco seducenti, invece, sembrano i bizantinismi relativi all’espressione delle preferenze: positive e negative. Da un lato, cioè, l’elettore tornerà padrone di “scegliere gli eletti”. È un tema molto spinto mediaticamente, ma che trova scarso conforto nell’analisi comparata e che, nel nostro passato, ha prodotto più danni che benefici (non a caso era un tipico strumento della prima repubblica). Dall’altro lato, l’elettore potrà anche esprimere una preferenza negativa, cioè punire un candidato impresentabile, cancellandolo dalla lista. Al di là dell’effetto liberatorio di una simile pensata (che soddisfazione, per molti, tirare qualche rigaccia sul nome dei politici più antipatici), la norma sembra scritta per non dar fastidio al M5S: un simile sistema, infatti, soprattutto se applicato per le elezioni politiche nazionali, premia i partiti “identitari” con candidati poco noti, o del tutto ignoti.

*Professore di Diritto comparato Università Bocconi

Photo Credit: Foto Roberto Monaldo / LaPresse

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