Amore criminale: la storia di Cristina
09/06/2016 di Redazione
CRISTINA OMES, QUINTA PUNTATA DI AMORE CRIMINALE –
Cristina e i suoi due bambini avevano un futuro, magari felice. La loro storia è raccontata stasera in tv su Amore Criminale. Prima di un triplice omicidio maturato tra le mura di una bella villetta, nella signorile Via Ungaretti di un comune ricco tra Pavia e Milano, Motta Visconti, e tra le pieghe famiglia che all’esterno appariva perfetta. In questa famiglia c’è un uomo, marito di Maria Cristina Omes e padre di due bambini, che si sente “soffocare” dalle responsabilità domestiche. Tifa Juventus, ha il culto del corpo, a volte si fa una partita a basket con gli amici. Si è innamorato di un’altra, che non lo vuole. Per liberarsi da questo peso, due giorni dopo l’ultimo rifiuto del nuovo oggetto del desiderio che lui imputa a quel matrimonio che lo ha stancato, decide di eliminare i suoi problemi: uccide la donna alla quale aveva giurato eterno amore e i suoi due bambini di 5 anni e 20 mesi.
A leggere uno stralcio della vicenda di Cristina, stasera, 9 giugno, dalle 21.05 su RaiTre, nella trasmissione Amore Criminale condotta da Barbara De Rossi, è Tullio Solenghi.
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La vicenda è stata ricostruita con la tecnica della docu-fiction, vero marchio di fabbrica di Amore Criminale (interviste ai testimoni, repertorio, ricostruzioni di fiction). In studio Anna Costanza Baldry, psicologa e criminologa, analizzerà le storie della puntata e risponderà ad alcune email inviate dagli spettatori su tematiche inerenti la violenza di genere e richieste di aiuto.
CRISTINA OMES, IL DELITTO DI MOTTA VISCONTI –
Giugno 2014, Maria Cristina Omes ha 38 anni, un marito di sette anni più giovani e due figli meravigliosi, Giulia e Gabriele. Hanno 5 anni lei, quasi due anni lui, tutta la vita davanti. Il marito di lei e il papà dei due bimbi è Carlo Lissi: vivono in provincia, a Motta Visconti, in provincia di Pavia. Molti li invidiano, quando passeggiano nel paesino sono la fotografia della famiglia perfetta, ma dentro le mura di casa, la villetta di Via Ungaretti 20, il veleno dell’odio e della frustrazione avvelena le loro vite. Fino a quel giorno in cui Carlo trova i cadaveri di Cristina nel soggiorno della loro casa, e di Giulia e Gabriele nella stanza da letto sua e della moglie. E’ la notte del 14 giugno 2014, lui è appena tornato dal Bar Zimé dove, con alcuni amici, ha visto l’Italia esordire al Mundial brasiliano, contro l’Inghilterra. Gli inquirenti non sono convinti fin dall’inizio dalla sua ricostruzione e presto accusano proprio lui della terribile strage familiare. Le tre vittime sgozzate, figlie di un matrimonio di sei anni che mai aveva mostrato incrinature, la cassaforte aperta, quell’uomo troppo lucido: qualcosa non quadra.
Carlo e Cristina nella loro comunità erano molto stimati, nessuno nelle loro due famiglie d’origine neanche sospetta che Lissi possa essere coinvolto. Pensano a una rapina in casa con conseguenze drammatiche, solo chi indaga si focalizza verso quell’uomo, in difficoltà “per le troppe responsabilità domestiche”. I colleghi di lui però raccontano di come Carlo avesse perso la testa per Maria.
CRISTINA OMES, IL PROCESSO –
La vicenda giudiziaria si è conclusa nel gennaio 2016. Carlo Lissi, 34 anni, è stato condannato all’ergastolo, seguendo peraltro la prima richiesta dell’imputato che a caldo aveva chiesto per se stesso “il massimo della pena”.
La sentenza del Gup di Pavia prevedeva anche tre anni di isolamento diurno, abbonato al condannato visto il rito abbreviato (che potrebbe ridurre di un terzo anche la detenzione). Il giudice ha inoltre disposto provvisionali da 100 mila euro alla madre della vittima, Giuseppina Redaelli, e da 50 mila euro al fratello Fulvio Omes. Le indagini avrebbero rilevato che Carlo Lissi si fosse invaghito di una collega, Maria, che non lo ricambiava e vedesse ormai nella famiglia un ostacolo a quell’amore solo immaginato. “Avevo già avuto due relazioni extraconiugali con due colleghe, ma quando ho conosciuto Maria mi sono davvero innamorato. Non siamo mai andati a letto, lei aveva un’altra relazione e me lo aveva fatto presente in modo chiaro, ma io ero disposto ad aspettarla” mi avrebbe detto.
La sera del 14 giugno nulla lasciava presagire la tragedia. Anzi. Carlo torna a casa, sussurra parole dolce alla compagna, fa l’amore con lei. Poi, dopo, scoppia un litigio. Confessa l’infatuazione per la collega. e gli dà due sberle, a detta dell’assassino, suscitando la sua folle reazione: arriva infatti a sgozzarla, dopo sette coltellate, e poi fa lo stesso con i figli, uccisi nel sonno. E’ in mutande, si riveste. Con freddezza esce, va a vedere un match calcistico con degli amici, infine torna, avverte le forze dell’ordine e dice di averli trovati così, in seguito a una rapina. Sono le 2 di notte. Alle 4,30 arriva la scientifica, mezz’ora dopo il nucleo investigativo dei carabinieri. Poi, un’ora dopo, quando già l’ipotesi della rapina traballa così come quello dell’omicidio-suicidio per il posizionamento dei cadaveri, Carlo va in caserma: nega, poi crolla. Dopo poco, porta la polizia a trovare l’arma del delitto, gettata in un tombino.
CRISTINA OMES, LE PAROLE DELLA MADRE –
“Siamo soddisfatti per questa pagina della giustizia italiana – ha detto dopo la sentenza Giuseppina Redaelli, settantotto anni, mamma di Maria Cristina Omes e nonna di Giulia e Gabriele – che per una volta ha fatto giustizia verso la famiglia. Sono soddisfatta, lui è stato malvagio con chi gli voleva bene”.
CRISTINA OMES, LA PERIZIA –
“Narciso, infantile, dipendente e antisociale”. Così recita la perizia dello psichiatra Giacomo Mongodi, richiesta dal giudice del procedimento Luisella Perulli. “Non è infermo di mente”, semplicemente non voleva affrontare la “vergogna del divorzio” e “il giudizio degli altri”. Altro che pazzo, il tecnico informatico non solo presenta un passato “privo di traumi”, ma alla partita di calcio vista a casa di amici si è mostrato “normale, tranquillo, anche sorridente” tanto che in caserma, prima di crollare e confessare, ha persino ordinato “una pizza e una birra”. E neanche nei mesi successivi ha mai ravvisato “segnali di reale, sincero pentimento”. Anzi, dai colloqui con il padre in carcere, si evince che pensa a come “farla franca, dimostrandomi infermo di mente”, a puntare “all’appello per una riduzione della pena” e ammette agli inquirenti che con la messinscena di quella notte “sì, pensavo che quella recita funzionasse, ci credevo”.
Sui figli, a volte, ha mostrato commozione. “Li ho ammazzati perché non volevo che soffrissero, mi avrebbero odiato”. E i futili motivi della strage lasciano basiti. “Ero stressato dalla casa, dal lavoro, dal pulire”. E la sua reazione è quello che lui chiama raptus e definita dallo psichiatra “abnorme, assurda, patologica”, di un’anima infantile, figlia di delusioni amorose giovanili, di speranze adolescenziali frustrate dalla sua stessa indolenza o dall’incapacità di capire i propri limiti: sia nel capire che una collega non lo ricambia, sia nel sentirsi abbattuto per non esser diventato, come sognava, astronauta o pilota di Formula 1. E capace di doti di “manipolatore” e non di rado in preda a “un delirio di onnipotenza”.
Ma forse la frase più agghiacciante Carlo Lissi non la dice allo psichiatra ma al pm Giovanni Benelli che gli chiede “non sarebbe bastato il divorzio”. Lui freddo e risoluto “no, i figli sarebbero rimasti”.