I giornalisti italiani feriti in Ucraina riaprono il tema dei freelance di guerra con scarse protezioni

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Il problema si è presentato spesso in questo conflitto in Ucraina: anche i grandi giornali, spesso, hanno preferito appoggiarsi a queste figure professionali, piuttosto che mandare i loro inviati più esperti

La notizia del ferimento dei due giornalisti italiani Claudio Locatelli e Niccolò Celesti nel teatro di guerra di Kherson riapre nuovamente un tema che non è mai stato approfondito abbastanza in quasi un anno di conflitto in Ucraina: quello dei giornalisti freelance che si sono spostati nelle aree più calde del fronte e che hanno documentato quanto accaduto in zona. Claudio Locatelli e Niccolò Celesti sono due giovani che, da qualche tempo, stanno raccontando episodi di guerra direttamente dalle città dell’Ucraina. Nella fattispecie, si trovavano a Kherson quando l’automobile con cui si stavano spostando è stata colpita. Mostravano, evidenti, i simboli internazionali di appartenenza alla stampa. A dare notizia del loro ferimento è stata la pagina Facebook di Claudio Locatelli.



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Claudio Locatelli e Niccolò Celesti feriti in Ucraina



Claudio Locatelli si fa chiamare, su Facebook, “giornalista combattente”. Oltre a spiegare nei dettagli l’accaduto, alla fine del post con cui ha annunciato il suo ferimento, ha scritto: «Supporta direttamente il nostro impegno su campo; bastano pochi euro per permetterci di continuare a riportare principalmente per voi». Ha quindi aggiunto il link a BuonaCausa.org, una piattaforma che serve a raccogliere donazioni e a supportare attraverso il web diverse iniziative, chiedendo di lasciare pochi euro per permettergli di continuare a fare il lavoro di giornalista in Ucraina.

Il fenomeno dei freelance in Ucraina

Una modalità di ingaggio che è quantomeno discutibile. Pensiamo agli inviati di guerra che, in passato, hanno raccontato i principali conflitti in tutto il mondo. Alle loro spalle, oltre alla preparazione, avevano una redazione che si preoccupava di garantire loro le migliori condizioni possibili per svolgere il proprio lavoro. Questo significa riuscire a procurarsi un fixer sullo scenario bellico, una persona – cioè – che possa aiutare il giornalista non soltanto ad avere le migliori soffiate su quello che sta accadendo, ma anche a guidarlo attraverso gli scenari più complessi. Inoltre, occorre sicuramente avere le opportune protezioni e prendere le precauzioni per operare nella maniera più sicura.



Ovviamente, avere un inviato di guerra che possa contare su queste garanzie comporta dei costi molto importanti che, in passato, soltanto le redazioni più strutturate potevano permettersi. Oggi, invece, il fatto che molti giornalisti freelance vadano a lavorare nelle zone di conflitto (spesso senza le protezioni adeguate) porta le redazioni più piccole (ma anche quelle più blasonate, attratte dall’idea di risparmiare) ad approfittare di questo lavoro, abbassando i compensi e abbassando anche gli standard di sicurezza richiesti. C’è poi chi, addirittura, si sposta nei teatri di guerra per progetti autofinanziati e autoprodotti. Se da un lato i nuovi media hanno consentito una visione a tutto tondo di quello che accade anche in un Paese invaso, è pur vero che alcune storture nella comunicazione e nell’informazione permangono. Non – sia chiaro – nei contenuti, quanto nelle forme e nelle regole d’ingaggio.