Il processo a YouTube che rischia di sconvolgere il meccanismo di raccomandazione dei contenuti

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Il caso che rischia di cambiare il funzionamento delle piattaforme social è Gonzalez v. Google LLC

Il caso frutto della citazione in giudizio di Google da parte di Reynaldo Gonzalez, la cui figlia è stata uccisa nel corso di un attacco terroristico a Parigi del 2015 che porta la firma di ISIS, finisce davanti all’Alta Corte americana. Il procedimento per il caso Gonzalez Google è stato avviato nel 2016 ai sensi della legge antiterrorismo sostenendo che YouTube abbia partecipato – in qualità di editore – alla diffusione e alla raccomandazione di video che hanno spinto le persone a radicalizzarsi. Google, dal canto suo, ha affermato di non essere responsabile dei contenuti pubblicati da terzi sulla sua piattaforma video in base alla sezione 230 del Communications Decency Act. Una sentenza a favore della famiglia andrebbe a capovolgere i meccanismi sui quali si basa internet attualmente, sconvolgendo – di fatti – il sistema.



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Caso Gonzalez Google e l’opportunità di pronuncia sulla Sezione 230

Gonzalez v. Google LLC rappresenta l’opportunità – per la Corte Suprema Usa – di pronunciarsi rispetto alle interpretazioni della Sezione 230 del Communications Decency Act del 1996. Si tratta di quella legge federale ampiamente criticata da più parti politiche che, di fatti, protegge le Big Tech dai contenuti pubblicati da terzi sulle loro piattaforme dando però loro modo anche di bloccare determinati tipi di contenuto.



Tra le altre cose, Gonzalez sostiene anche che l’utilizzo di YouTube abbia permesso all’ISIS di reclutare nuovi membri sfruttando il meccanismo di raccomandazione basato su un algoritmo che andava a suggerire alle persone video del gruppo se queste mostravano interesse e facevano ricerche in merito. Secondo la denuncia, raccomandandone i contenuti Google tramite YouTube. sarebbe andato ben oltre il semplice fornire una piattaforma da utilizzare.

Il dibattito è aperto già da diverso tempo e vede contrapporti, da un lato, i sostenitori della libertà di parola che vogliono che lo scudo per le Big Tech resti quasi interamente intatto; dall’altra parte troviamo coloro che vorrebbero una maggiore responsabilizzazione per il materiale di cui viene permessa la pubblicazione.



I diversi scenari a seconda della decisione della Corte Suprema

Lato Google, l’azienda non esita a dipingere conseguenze terribili se quest’ultima interpretazione prevalesse: un esito a favore della famiglia «trasformerebbe Internet in una distopia in cui i provider dovrebbero affrontare pressioni legali per censurare qualsiasi contenuto discutibile. Alcuni potrebbero adeguarsi, altri potrebbero cercare di eludere la responsabilità chiudendo gli occhi e lasciando tutto, anche se discutibile».

Come si legge su Voanews, dall’altro lato in molti – a partire da Megan Iorio, consulente senior dell’Electronic Privacy Information Center – sostengono che «in realtà, tutto ciò che farebbe è far sì che Google e le altre aziende tecnologiche debbano seguire la legge proprio come tutti gli altri». Continua: «La Sezione 230 fa sì che le aziende tecnologiche non debbano rispondere quando qualcuno dice loro che sul loro sito è stata pubblicata pornografia non consensuale che continua a proliferare. Non sono tenute a rimuovere altre cose che, secondo un tribunale, violano i diritti alla privacy di una persona. Quindi, dire che il ritorno della Sezione 230 al suo significato originario creerà un paesaggio infernale è iperbolico».

La direzione che prenderà la Corte Suprema non è ancora nota ma – facendo una serie di ipotesi – emerge come con la decisione si potrebbe procedere lasciando una serie di protezioni per le Big Tech ma rendendole responsabili del famoso meccanismo di raccomandazione dei contenuti. Le critiche alla Sezione 230, intanto, sono arrivate sia dai Repubblicani che dai Democratici e Joe Biden ha pubblicato un saggio in merito alla questione sul Wall Street Journal invitando «Democratici e Repubblicani a unirsi per approvare una forte legislazione bipartisan che responsabilizzi le Big Tech».