Migranti: ecco cosa è successo alla stazione Tiburtina – VIDEO

Non ci sono più. La polizia ne ha identificati e portati alcuni tra pianti e fughe al Centro Immigrazione per l’assistenza necessaria, mentre chi è riuscito a fuggire (non pochi) ora sono sparsi nel quartiere. Non ci sono più i migranti dietro la stazione Tiburtina diventati simbolo del degrado della Capitale in queste ultime 24 ore. Il problema è balzato davanti agli occhi di tutti solo quando le tv si sono presentate sul posto. Ma Amal e Aisha erano lì da fine maggio. Senza acqua, né cibo. Nell’indifferenza di tutti, con altri compagni di sventura.

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(video S. Carboni/A.Sofia)

I MIGRANTI DI TIBURTINA: COME VIVEVANO – Con un cartone come materasso, steso per strada. O sotto gli alberi, per provare a ripararsi in caso di pioggia. In una sala d’attesa infinita, senza tempo. Da giorni centinaia di migranti, provenienti soprattutto dal corno d’Africa (eritrei, somali, etiopi) e dal vicino Sudan, aspettavano il loro futuro. Nessuno, spiegano, voleva rimanere in Italia. Il loro domani ha l’aspetto di un bus, pagato con i soldi dei parenti. E in ritardo. Sì, in tremendo ritardo perché a causa del G7 in questi giorni non potevano neanche passare il confine verso Austria e Germania, tra le loro mete preferite. Eh sì, perché gli accordi di Schengen vengono sospesi durante questi vertici internazionali. Niente libera circolazione, niente “sogno” in Svizzera, Francia, nello stesso Paese tedesco. E perfino in Norvegia. Dopo aver attraversato il mare Mediterraneo nelle “carrette della speranza”, dopo aver pagato tra i mille e duemila dollari per un viaggio senza avere alcuna certezza di raggiungere le coste italiane, uomini, donne e tanti bambini – molti non accompagnati – aspettavano l’infinito sotto l’afa estiva di Roma. Schengen bloccato, viaggio bloccato. Il risultato? A Roma si era creata una sorta di baraccopoli accanto a una delle stazioni principali della Capitale.

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La situazione prima dello sgombero

TIBURTINA E IL SOGNO DELLA FAMIGLIA OLTRE IL CONFINE – In quei giorni, che Giornalettismo ha documentato, era vietato, o quasi, avvicinarsi con la telecamera. Molti di loro non parlano nemmeno l’inglese. E se sei un giornalista alla prima domanda in lingua straniera mostravano diffidenza. «Arabo?». O arabo, o niente. Molte di queste persone sono senza i documenti necessari. Anche a telecamera spenta la maggior parte di loro ha preferito non parlare. «Qui i giornalisti vengono, ci riprendono da lontano. Questo sarebbe giornalismo?», ci spiegava a due passi dalla biglietteria, in un inglese improvvisato, un africano che arriva dal Darfur. Scappano da guerre e dittatori. E hanno già speso tutto per affrontare, stipati in carrette da 300 persone (nel migliore dei casi), il loro destino. Fuggono. Cercano di raggiungere la persona amata oltralpe. «My wife», dichiara un eritreo in inglese. «Lei ha aspettato qui 10 giorni». Ora sta in Germania. Lui è cristiano, non hanno figli. Aveva in mente soltanto di raggiungerla e si era unito a un gruppetto di cinque persone sotto l’ombra di un albero dietro Largo Mazzoni.

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IL LIMBO TRA TIBURTINA E PONTE MAMMOLO – Se pioveva c’era il cavalcavia che ripara. Al massimo, qualche albero. A coprire la fame Caritas o Croce Rossa. Oppure gli abitanti della zona, come Claudio. «Io ho portato le pizze», diceva ribadendo la sua indignazione. «Questa situazione c’è da fine maggio, dal 19». Una data precisa. Lo sgombero di Ponte Mammolo. Migranti di Roma si sono uniti ai migranti che aspettavano il bus per la Germania. In pochi giorni è esplosa l’emergenza, in condizioni igienico-sanitarie pessime. E con il pericolo di ammalarsi.
Dietro la stazione Tiburtina non si contava sugli altri, ma sulla solidarietà tra chi si trovava nello stesso limbo. «Qui ci diamo tutti una mano», raccontavano in un inglese basilare. E loro, silenti, non davano fastidio a nessuno. «Non saprei neanche dire quanti sono, o da quanto tempo si trovano qui», ci ha raccontato una guardia giurata in stazione. «In confronto a tante altre situazioni e etnie che girano qui – ha sottolineato – sapete, loro sono proprio tranquilli». Per farsi capire dagli italiani, Samir, un connazionale dei ragazzi eritrei ha aiutato noi giornalisti traducendo dall’inglese all’arabo: «Quello che dovete spiegare è una cosa sola», ci ha detto prima dello sgombero. «La gente a Tripoli muore». «Ci sono persone che pagano il viaggio, come sempre, in anticipo. Arrivano in spiaggia. Poi qualcuno apre il fuoco. Muoiono. Uccise. Non partiranno mai. Io mi chiedo: cosa fanno gli Stati Uniti, l’Unione Europea? Ci sono soldati di altre nazioni in Libia. Perché non controllano lì? Perché non evitano tutto questo?».

Ora le parole di Samir non contano più. Ora non è rimasto quasi più nessuno a Tiburtina. I migranti sono stati portati via dopo giorni di degrado davanti all’indifferenza delle istituzioni. Lontano dagli occhi, lontano dai riflettori. Fino alla prossima emergenza. Molti dei migranti, all’arrivo della polizia, si sono dati alla fuga. Scappano ancora, inghiottiti nel limbo del sistema d’accoglienza d’Italia e di una Capitale in cui il problema si crea solo quando appare davanti agli occhi di tutti. «Noi – ha spiegato in una nota l’assessore alle Politiche Sociali di Roma Capitale Francesca Danese – non intendiamo sottrarci a questa sfida. Ecco perché abbiamo chiesto alla Prefettura di Roma e al Ministero degli Interni la costituzione di un Tavolo urgente, dove abbiamo portato delle proposte, che sono al vaglio proprio in queste ore».

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