Latin Lover: Cristina Comencini e le sue figlie sull’orlo di una crisi di nervi

LATIN LOVER, LA RECENSIONE –

Potremmo definirlo il miglior film di Cristina Comencini. Non mentiremmo. Il punto è capire se è davvero una valutazione positiva, perché del suo cinema, che a dir la verità ha offerto almeno una prova più valida di questa – Liberate i pesci! e forse anche Matrimoni -, Latin Lover conserva un certo velleitarismo e la voglia di insistere su stereotipi radical chic e visioni antiche di dinamiche familiari, cinematografiche e relazionali.

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LATIN LOVER E IL CINEMA DI UN TEMPO –

La trama del film si concentra sulle donne – tutte sull’orlo di una crisi di nervi, tanto che la più sana e solida finisce per essere l’almodovoriana Marisa Paredes – della vita rutilante del grande Saverio Crispo. Chi è questo latin lover interpretato dall’attore dal voto tanto quello quanto d’altri tempi Francesco Scianna? Una specie d’incrocio tra Gassman, Volonté e Mastroianni – almeno a giudicare dal montaggio del documentario prodotto per il decennale che far riunire tutte le sue femmine – noto per essere stato il Rodolfo Valentino del suo tempo, con tanto di rumors verdoniani annessi – “no, pure Burt?”- e uno stuolo di compagne e figlie, tutte con le sue iniziali – S e C -, ancora schiave del suo fascino. E già qui si fa fatica a capire come una delle leader morali, e non solo, del movimento femminista Se non ora quando riesca a offrire un’immagine della donna vittima ineluttabile, quasi suddita, di un uomo. Per quanto la figura di Saverio sia grande, e comunque bidimensionale e vacua, è dura comprendere perché figlie così diverse, per indole e provenienza (Francia, Svezia, Italia, Stati Uniti e Spagna), o peggio mogli tanto affascinanti e irresistibili (Virna Lisi e Marisa Paredes), debbano perdersi come in un bicchier d’acqua davanti al grande Crispo. Tutte trattate, dalla regista, come deboli fuscelli prive di una propria personalità, ostaggio dei loro psicanalisti (Valeria Bruni Tedeschi), incapaci di imporre le proprie scelte di vita e vestali del genitore scomparso (Angela Finocchiaro), apparentemente equilibrate ma in verità alla ricerca della bellezza perfetta del padre (Candela Peña), fragili “piccole di casa” che celano l’incapacità di controllarsi dietro la propria provenienza geografica (Pihla Viitala). Per non parlare del cameo di Nadeah Miranda, che al sex appeal del padre prova a cedere con tutte le scarpe.

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LATIN LOVER, I DIFETTI –

Sarebbe anche divertente indagare nei meandri autobiografici e metacinematografici di Latin Lover – la Comencini è figlia d’arte e ha tre sorelle (Francesca, Paola ed Eleonora) -, ma la verità è che questo lungometraggio si ferma, ozpetkianamente, a una superficialità che vorrebbe essere lieve e ironica, ma mai ficcante. Persino la figura dei critici (Bertorelli e Gioé) vengono sì leggermente derise, ma senza alcuna cattiveria, senza riuscire a mostrarne le ombre. Ci si bea di un gusto radical chic nell’accondiscendere alla vacuità di un ambiente che si autorappresenta senza mordente, di un’analisi relazionale generazionale e tra generi che è fuori tempo, in una regia che si concede pochi guizzi e anche quelli ben confezionati, ma mai sorprendenti, in un montaggio rinchiuso in schemi troppo datati e la fotografia che è lì a fare il suo, ma senza strafare.

Latin Lover non è un brutto film. Neanche bello. E’ un lavoro prevedibile, velleitario, radical chic nel suo sorridere di un piccolo mondo antico che non si rassegna alla sua marginalità, alla sua povertà emotiva nascosta sotto emozioni dichiarate e sopra le righe, bisognoso di colpi di scena da commedia banale. E’ uno di quei film che alla parola fine ti lascia pochissimo – il monologo-confessione di Virna Lisi, le espressioni geniali di Marisa Paredes, l’orazione funebre di Lluis Homar – e di cui sfugge la necessità. Vorrebbe essere grazioso, ma alla fine stanca. Perché manca qualcosa, che, per dire, nella piéce teatrale Due partite, sempre di Cristina Comencini (e anche nell’adattamento cinematografico portato sullo schermo da Enzo Monteleone), in fondo non dissimile, c’era eccome. Qui manca la carne, l’anima, la voglia di ribellarsi alle etichette, c’è solo il carisma delle attrici che si smarca a fatica, e molto raramente, dalla medietà dello sguardo della regista.

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E, peraltro, il cinema italiano d’un tempo, qui tanto rimpianto, era ben altro. Non solo belle facce, doppie famiglie, donne sedotte e abbandonate. Miti buonisti e aneddoti pruriginosi (che, peraltro, in una mattinata con il mitico Enrico Lucherini, il re dei press agent, ne puoi avere di migliori e raccontati con molto più potenza narrativa e persino visiva, con le sole parole). Qui, con goffe citazioni western, e montaggi che ci servono solo a ricordare che Scianna dovrebbe essere “usato” di più e meglio, non senti quella nostalgia d’un’epoca d’oro che con Latin Lover c’entra poco e niente.

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