Antonio Mancini, Enrico De Pedis e i peccati della Magliana

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Sul caso di Emanuela Orlandi l'Accattone rilascia un'intervista al Fatto. Racconta il presunto ruolo di Renatino nella fine della cittadina vaticana. Ma...

La storia la sapete? No? Riassunto delle puntate precedenti. Sul Messaggero, dieci anni fa, un articolo racconta che De Pedis è seppellito a Sant’Apollinare, chiesa cattolica e territorio vaticano, a quanto si dice (ma non è vero). Sette anni fa, un anonimo telefona a “Chi l’ha visto?” dicendo che se si vuole trovare Emanuela Orlandi bisogna cercare nella tomba di Renatino. Raffaella Notariale, giornalista del programma di Raitre, va a trovare la Minardi che dice a lei – e ripete in una deposizione messa a verbale davanti al magistrato Simona Maisto – di essere stata l’amante per anni di De Pedis, di averlo accompagnato in macchina con la Orlandi, di aver saputo che il corpo della ragazzina vaticana era stato seppellito nel cemento in una villa a Torvajanica o nel litorale romano. E ha fatto ritrovare uno scantinato dalle parti del San Camillo dicendo che era un “covo” di De Pedis. Delle sue parole e di quanto ha dichiarato, questo finora è l’unico riscontro oggettivo. C’è un filone d’indagine quasi indipendente che mira a collegare alcuni personaggi “storici” della mala romana alla scomparsa di Emanuela Orlandi, ma non è questo il punto.



 

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QUAL E’ IL PUNTO? – Veniamoci. Stamattina sul Fatto Quotidiano Rita di Giovacchino e Malcom Pagani hanno intervistato Antonio Mancini, l'”accattone” della Banda della Magliana. Personaggio importante nel mondo della mala romana, Mancini si è pentito e ha cambiato vita partecipando a numerosi processi che hanno riguardato persone, vive o defunte, collegate alla bandaccia. E’ importante ricordare che alcuni di questi processi si sono conclusi con sconfitte per l’accusa, prima di andare a rileggere quanto scritto nell’intervista. In particolare evidenziandone i punti critici. Ad esempio c’è questa domanda/risposta:



 

Che ruolo ebbe De Pedis nel rapimento Orlandi?
Guidò la macchina che servì al sequestro della ragazza. Il rapimento fu deciso da mafiosi e testaccini. C’erano soldi che non rientravano e la scelta era tra lasciare qualche cardinale a terra ai bordi della strada o colpire qualcuno che fosse vicino al Papa e che aveva rapporti economici con noi per marcare un segno. Scegliemmo la seconda strada.

E’ importante, allo scopo di ragionare su quanto scritto sul Fatto, conoscere preliminarmente un dato: Mancini è in galera dal 1981, Emanuela Orlandi viene rapita nel 1983.

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Mancini racconta cose che non può aver vissuto in prima persona, per ovvii motivi. Mancini usa addirittura nell’ultima frase, secondo il Fatto, la prima persona plurale per raccontare qualcosa di cui, al massimo, gli hanno riferito le voci del carcere. La situazione è quantomeno fuorviante, ma non si fa in tempo a rendersene conto che subito arriva addirittura il movente del rapimento. L'”Accattone” racconta di un rapimento fatto per ritorsione, ma state a sentire la storia: individuano qualcuno che deve corrispondere all’identikit di uno che aveva rapporti economici con loro in una ragazzina vaticana. Vi pare normale?

IL CASO DEL PADRE – Anche per questa apparente contraddizione c’è una risposta, però. E Mancini lo dice più tardi:

Perché proprio la Orlandi?
Ve l’ho detto. Il padre di Emanuela non era un semplice messo. Era molto di più.
L’ha mai detto ai famigliari?
Quando vidi Natalina, la sorella di Emanuela, negli studi di Chi l’ha visto? le dissi esattamente così.

Purtroppo non sappiamo cosa abbia risposto la figlia di Pietro Orlandi, messo vaticano che invece non era proprio altro che quello. E che in tanti anni avrebbe sopportato, secondo Mancini, la scomparsa di una figlia senza fare una parola che una, in nessuno dei consessi pubblici e privati in cui si è trovato a causa di quanto accaduto ad Emanuela, di suoi “misteriosi” incarichi che alla fine, per Mancini, si potrebbero anche ridurre soltanto a fare il portaborse del fantomatico malloppo che la bandaccia avrebbe prestato al Vaticano e di cui non riusciva a tornare in possesso. Una teoria interessante, in attesa anche solo di un indizio di veridicità. Ma non è mica una confessione. Perché l’Accattone, ricordiamolo, era in galera da due anni mentre i suoi compagni, tra cui il di lì a breve piissimo De Pedis, rapivano una ragazzina di 14 anni, ne facevano sparire il corpo, non davano alcun segnale a nessuno – per quel che se ne sa – del fatto di averla rapita per riavere indietro i soldi. E ovviamente di tutti i componenti della Bandaccia, di cui alcuni sono diventati come Mancini collaboratori di giustizia, nessuno ha mai fatto una sola parola sui fatti fino a quando non ha deciso di parlare lui. E’ credibile?

LA SERATA DEI PERCHE’ – Perché di tutti i componenti della Banda della Magliana, nessuno ha mai fatto parola di questo grande colpo contro il Vaticano? E a Mancini, dal carcere, chi gliel’ha raccontata la storia? Esiste una fonte? E’ disposto l’Accattone a farne il nome? Se no, perché? Di sicuro Mancini è pronto a dare tutte le risposte a queste domande. Così alle molte altre che vengono quando comincia a raccontare le sue verità sul caso Moro, la strage di Bologna, e sulla donna di Abbruciati “ex partigiana al soldo del Mossad” – sic! – della quale a questo punto saremmo curiosi di conoscere il mestiere dei nonni. Nell’attesa rimane che la storia del boss mafioso sepolto in chiesa ieri è ufficialmente finita. E con le conclusioni che tutti conosciamo: queste.

La fine della storia di De Pedis sepolto in chiesaFoto

E QUALCHE RISPOSTA – E’ invece importante ricordare che l’Accattone (Ricotta, in Romanzo Criminale) in un “Chi l’ha visto?” di qualche tempo fa disse di aver riconosciuto senza ombra di dubbio il “Mario” che aveva telefonato a casa Orlandi nel giugno del 1983 per tranquillizzare i genitori di Emanuela. “E’ uno dei killer più terribili della Magliana, ma non voglio farne il nome, lo dirò agli inquirenti”,

disse all’epoca in favore di telecamera. Detto, fatto: Mancini accusò un uomo indicato come “killer personale di De Pedis”, ma le perizie fonetiche esclusero che la persona indicata dall’Accattone fosse il telefonista.

PIU’ ALTRE DOMANDE – In un’intervista alla Stampa di qualche tempo fa aveva detto anche altro, Mancini, oltre a quello che ha ripetuto al Fatto:

Perché non ha parlato prima del caso Orlandi?
«Non faccio il giudice. Nessun magistrato mi ha mai chiesto niente sulla scomparsa malgrado il vigile Sambuco abbia visto vicino al Senato la ragazza con un uomo il cui identikit somiglia moltissimo a De Pedis. Alti funzionari di polizia hanno detto di essersi indirizzati subito sulla pista-Magliana ma di aver trovato bastoni tra le ruote».

La circostanza del riconoscimento da parte del vigile è inesatta. Le cose andarono così: a uno dei due “presunti” testimoni (perché, per la precisione, nessuno sa con certezza se la ragazza che videro il poliziotto e il vigile era Emanuela Orlandi) fecero vedere degli identikit, e tra questi c’era anche quello di De Pedis. E uno dei due disse che gli somigliava, l’altro no. Una circostanza curiosa e degna di indagine, ma che va considerata insieme a delle altre: i due testimoni non erano stati concordi nell’individuare il colore dell’automobile (per uno era verde, per l’altro era blu), e nemmeno il tipo. E, secondo le loro stesse testimonianze, si trovavano a diversi metri dall’accaduto.

Il pentito Mancini, in galera all’epoca dei fatti e che aveva sbagliato nell’identificazione della voce di “Mario”, deve essere però un ottimo lettore della pubblicistica sulla Orlandi. Un vero peccato che nel suo libro di memorie sulla Banda scritto con Federica Sciarelli sull’affare Orlandi non sia mai stato così preciso. Ma a tutto c’è rimedio. Soprattutto nella pubblicistica.

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