Legge di stabilità, D’Attorre lascia il Pd: «Non la voto ed esco dal partito»
17/10/2015 di Redazione
Tutto come annunciato: il deputato della minoranza del Partito Democratico Alfredo D’Attorre annuncia la sua uscita dal Pd; o meglio, annuncia che, senza importanti mutamenti all’impianto della legge di Stabilità che approderà in Parlamento dopo il varo del governo, non potrà fare a meno di negare al governo di Matteo Renzi la fiducia: “Non votare la fiducia avrà chiaramente delle conseguenze politiche”. La parabola dell’esponente bersaniano nel Pd starebbe dunque per giungere al termine.
LEGGE DI STABILITA’, IL PD PERDE D’ATTORRE: “NON LA VOTO ED ESCO DAL PARTITO”
E’ lui stesso a chiarirlo in un’intervista a Repubblica.
«È un impianto insostenibile. Porta a compimento la mutazione genetica del Pd».
Teme la nascita del partito della nazione?
«L’abbraccio con la destra mi pare perfettamente coerente con le scelte di fondo. Al centro c’è l’abolizione della tassa sulla prima casa per tutti, compresi i proprietari di castelli. Neppure Berlusconi si era spinto fin lì. A fronte di questo si riduce la spesa per la sanità in rapporto al Pil».
I suoi colleghi della sinistra protestano, ma la voteranno.
«Non c’è nulla per la flessibilità in uscita per le pensioni e ci sono briciole persino insultanti per i dipendenti pubblici, dopo cinque anni di blocco contrattuale. Sul Sud siamo alle chiacchiere…».
Renzi parla di «sorprendente» taglio delle tasse.
«Si dà la priorità ai profitti aziendali senza neppure il vincolo del reinvestimento, anziché ai redditi da lavoro. E poi c’è la ciliegina sulla torta sull’uso del contante, che trasmette un messaggio inquietante in termini di lotta all’evasione e alla corruzione».
Per D’Attorre dunque le scelte politiche alla base della manovra finanziaria sono totalmente incondivisibili; tanto che il parlamentare sta per trarre tutte le conseguenze riguardo la sua permanenza nella maggioranza di governo e nel partito di cui il presidente del Consiglio è segretario; anche perché, dice D’Attorre, quel partito è ormai cambiato, se non definitivamente inquinato da innesti a destra.
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Vuol dire che non la voterà?
«No, senza correzioni profonde la ritengo invotabile. Renzi se la approvi con i voti di Alfano e di Verdini, non certo con il mio».
Ha paura di ritrovarsi Verdini, D’Anna e Barani nel giardino della «ditta»?
«Verdini ha già saldamente piantato le sue tende nel giardino del Pd».
È un altro penultimatum, o non voterà la Stabilità neppure con la fiducia?
«No, di fronte a questo impianto andrò fino in fondo. Stavolta per me prevarrà la fedeltà al programma con il quale siamo stati eletti nel 2013».
Poi dovrà uscire dal Pd.
«È del tutto ovvio che un voto contrario implica conseguenze politiche. La sua approvazione significherebbe il definitivo distacco del Pd da una rotta di centrosinistra. Contiene misure che rappresentano una demolizione anche simbolica dell’eredità dell’Ulivo. Se queste cose le avessero proposte Berlusconi e Tremonti saremmo scesi in piazza».
Così, Alfredo D’Attorre raggiungerà gli altri esponenti della minoranza interna che sono usciti dal Partito Democratico, probabilmente per provare a costruire un nuovo percorso comune a sinistra del Pd.
Bersani, Speranza e compagni sono sulla sua lunghezza d’onda, o si assume il rischio di una uscita solitaria come già Civati e Fassina?
«Penso che ci sia ancora la preoccupazione di evitare una spaccatura definitiva del Pd. Ma per quanto mi riguarda siamo arrivati a un punto limite e rischieremmo di non essere più credibili dopo un altro voto favorevole».
Spera in una vera scissione?
«Non credo che sarò l’unico deputato pd a non votare la Stabilità, se resta questo l’impianto. E questa scelta sarà condivisa da molti militanti. Invito il resto della minoranza a fare una riflessione. Sul territorio c’è sofferenza e sconcerto. A questa mutazione genetica si aggiunge la sospensione di ogni forma di democrazia interna».
Renzi dice che non fate altro che riunirvi…
«Si è arrivati alla legge di stabilità senza una sola riunione né di partito, né di gruppo. Nei territori l’attività democratica è quasi sospesa e addirittura si mette in discussione il ricorso alle primarie per i sindaci. Il Pd è ridotto a un comitato elettorale e all’ufficio stampa del capo».
Farà una «cosa rossa» con Sel, Fassina e Civati?
«Non credo a una riedizione della cosa rossa o esperimenti di sinistra radicale. Se lo snaturamento del Pd arriva a compimento, si apre lo spazio per un soggetto largo e plurale di centrosinistra, ulivista».
Una nuova «ditta», sulla scia del Pci-Pds-Ds?
«Bisogna dare espressione sia a una sinistra di governo moderna, sia a un’area cattolica. Renzi sta trasformando il partito in una forza moderata che sembra guardare a destra molto più volentieri che a sinistra».
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