La Cina accusata di interferenze dopo la rimozione dell’account WeChat del primo ministro australiano

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L'account WeChat con 76 mila follower è stato letteralmente tolto al primo ministro australiano e si ipotizza un legame con quanto accaduto al G7 dello scorso anno

WeChat è al centro dell’ennesima valanga di critiche. Si tratta di una delle app di messaggistica social più utilizzate nel paese del Dragone con 1,2 miliardi di utenti attivi ogni mese (dati 2020). La maggior parte di questi è concentrata in Cina. Le critiche da parte dei governi occidentali per i legami che sembrano esserci con il governo cinese non sono certo mancate: già nel 2020 Trump voleva vietarla negli Stati Uniti sostenendo che potesse mettere a rischio la sicurezza nazionale consegnando i dati dei cittadini dritto dritto nelle mani del governo cinese. Una questione che è emersa recentemente anche per My2022, l’app che terrà monitorata la situazione Covid durante le prossime olimpiadi invernali di Pechino. Tornando a WeChat, l’ultima arriva dall’Australia con l’accusa diretta alla piattaforma per l’account WeChat primo ministro Australia rimosso.



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Le accuse per l’account WeChat primo ministro Australia rimosso

Dall’Australia arrivano accuse dirette a WeChat, che avrebbe rimosso l’account del primo ministro Scott Morrison. Oltre a questo, i 76 mila seguaci che sulla piattaforma seguivano quell’account sarebbero stati reindirizzati a un altro account chiamato “Australian Chinese New Life”. Quest’ultimo afferma di fornire informazioni agli australiani che stanno in Cina. A rendere nota la rimozione dell’account è stato James Paterson, presidente della commissione parlamentare congiunta sull’intelligence e la sicurezza dell’Australia, parlando di una violazione dell’account del primo ministro australiano.



Un avviso di WeChat del 5 gennaio riferiva – come riposta CNN Business – che «tutti gli affari e le funzioni» si quell’account erano stati trasferiti a quell’account, collegato con una società tecnologica che ha sede nella provincia cinese di Fujian. Secondo Tencent – che possiede WeChat – non esisterebbero prove di una violazione dell’account di Morrison e la proprietà dell’account sarebbe stata contestata. «L’account in questione è stato originariamente registrato da un individuo cinese – ha affermato la società quotata in borsa – ed è stato successivamente trasferito al suo attuale operatore, una società di servizi tecnologici». Tutto normale per WeChat, quindi, che dice di non riscontrare nessun tipo di irregolarità in questa storia promettendo però di continuare a esaminare la questione.

Le ipotesi dell’Australia su questa mossa di WeChat  e la proposta di boicottaggio

In molti nel governo australiano prendono posizione in merito alla questione – con la diretta richiesta di farlo anche al leader dell’opposizione australiana Anthony Albanese – ed è stata fatta una proposta formale per boicottare WeChat nell’anno delle federali australiane (in programma per il prossimo 21 maggio) tramite cui verranno eletti i membri del 47° Parlamento australiano. Il boicottaggio parte da Gladys Liu, membro della Camera dei Rappresentanti australiana che rappresenta la divisione di Chisholm nel Victoria.

member of the Australian House of Representatives representing the Division of Chisholm in Victoria

Paterson non ha esitato a ipotizzare le ragioni di un’azione del genere compiuta volontariamente. I problemi con la gestione dell’account sono cominciati a metà 2021, in concomitanza con il G7. L’ipotesi di Paterson – esternata durante un’intervista – è che questa azione possa essere legata a quanto affermato in quell’occasione dal primo ministro Morrison «sui pericoli di diventare sovraesposti alla Cina e di subire una posizione dominante da parte sua».

Già all’epoca il governo australiano «ha fatto appello direttamente a WeChat per chiedere loro di ripristinare l’accesso» non ricevendo però riposta. Il portavoce del ministro degli Esteri cinese Zhao Lijian ha parlato di una «questione tra Morrison e WeChat» parlando di accuse di interferenza da parte della Cina che «non è altro che denigrazione infondata e diffamazione».