100 anni fa nasceva Primo Levi: ci insegnò a guardare l’abisso
31/07/2019 di Daniele Tempera
Un chimico che ha saputo raccontare con sapienza e rigore scientifico l’orrore dell‘Olocausto, del Novecento e le criticità senza fondo della condizione umana. Primo Levi nasceva a Torino, esattamente 100 anni fa, il 31°luglio 1919. Figlio di ebrei piemontesi, il futuro scrittore si formò al Liceo classico Massimo d’Azeglio, non certo una scuola qualunque. L’istituto era negli anni ’30 un vero e proprio laboratorio di antifascismo. Tra i suoi insegnanti figuravano nomi illustri come Augusto Monti, Franco Antonicelli, Umberto Cosmo, Norberto Bobbio, Zino Zini e Massimo Mila. E cosa fosse il fascismo, del resto, Levi lo sperimentò duramente nel 1938, l’anno delle leggi razziali. Era già iscritto all’Università e, in quanto tale, gli fu concesso di terminare il corso di laurea in chimica, ma quelle leggi ponevano la parola fine su ogni ambiguità. Il fascismo si configurava pienamente per quello che era: un’ideologia di sopraffazione e arbitrio, di opportunismo e violenza, che non esitava a sacrificare italiani sull’altare dell’alleanza con la Germania nazista. Quattro anni dopo, dopo una breve esperienza di lotta partigiana, fu arrestato e deportato in Germania, direzione Auschwitz : un’esperienza terrificante che segnò tutta la sua esistenza.
Primo Levi, il lager come metafora del totalitarismo
E fu l’esperienza della prigionia e delle orribili sevizie subite nel campo di sterminio nazista a orientare la produzione dello scrittore. La scrittura in Levi diventa subito volontà di raccontare quello che è avvenuto, ma anche di osservare, con la curiosità di un uomo di scienza, le reazioni umane quando ci si trova di fronte a situazioni così estreme. “Se questo è un uomo”, opera dello scrittore, pubblicata per la prima volta nel 1958 da Einaudi, diventa così non solo un resoconto dettagliato di quello che è stato l’Olocausto, ma anche un viaggio doloroso e oscuro all’interno dell’animo umano. Come descritto lucidamente da un’altra grande filosofa ebrea, Hannah Arendt, i lager non furono semplicemente campi di lavoro e sterminio, ma “i laboratori dove si sperimenta la trasformazione della natura umana“. Il posto dove gli individui, per bisogno o per terrore, si trasformano in semplici “fasci di reazioni”. Dove non c’è più nessun filtro tra lo stimolo e la risposta, l’ordine e l’ubbidienza. Il sogno di ogni regime.
Quello che la Arendt ha teorizzato, Primo Levi lo ha prima vissuto, poi descritto, facendolo arrivare fin nelle ossa di chi legge. Anche in Levi il lager è un gigantesco esperimento sociale volto a ridefinire per sempre la natura umana, a uccidere il bene e la speranza, a livellare tutto verso la disperazione e l’isolamento sociale. Perché sono gli individui isolati e disperati le prede perfette del potere.
Anche nel campo esistono “sommersi e salvati”: chi rifiuta di adattarsi alle regole dell’orrore degli aguzzini, e ai valori promossi dagli oppressori, rischia di avere molto breve. Chi lo fa, al contrario, può sopravvivere. Lo dimostra l’esempio dei kapo, prigionieri speciali ai quali venivano affidato alcune gestione di comando sugli altri deportati. Per diventare kapo era necessaria l’adesione alla politica di gestione del campo adottata dalle SS e l’assoluta mancanza di pietà nei confronti dei detenuti. O lo dimostra, analogamente, il mercato nero che si viene a creare sui beni di prima necessità nel lager (anch’esso descritto in “Se questo è un uomo), un mercato soggetto, come sempre, a manovre speculative esercitate, questa volta, sulla pelle degli altri prigionieri.
C’è poco, pochissimo spazio per libertà, per la solidarietà e per la compassione nell’universo tratteggiato da Levi, dove prevale solo la lotta per la sopravvivenza. Un deserto che molti deportati serberanno nel cuore fino alla fine dei loro giorni e che porterà molti credenti a dubitare sull’esistenza di Dio. “C’e’ Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo” scrisse lo stesso Primo Levi.
La riflessione sulla tecnologia e le opere dell’ultimo Primo Levi
Dopo “Se questo è un uomo”, vero e proprio capolavoro ormai letto tutto il mondo, Primo Levi è tornò a parlare del drammatico viaggio di ritorno dall’inferno ne “La Tregua”. Nei racconti che compongono la raccolta “Storie naturali” lo scrittore piemontese intravede invece, anche ironicamente, la vertigine della tecnologia nei suoi aspetti potenzialmente totalitari: la follia dell’eugenetica, le droghe per sopprimere il dolore e conseguentemente la coscienza, il virtuale che divora il reale e molto altro. Domande che, alla vigilia della rivoluzione digitale contemporanea, assumono talvolta caratteristiche di monito e profezia. Del resto Levi restò sempre un uomo di scienza e titolò, non a caso, “Il sistema periodico”, una raccolta in cui episodi autobiografici e racconti di fantasia vengono associati a un diverso elemento chimico.
Scrisse ancora di scienza, società e pubblicò saggi sulla condizione del campo di concentramento, ma fu soprattutto lo scrittore che, dall’abisso del Lager ci parlò della vertigine della condizione umana: «Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori, e di farlo con mano piú leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film. Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana» scrive Levi nel saggio “I sommersi e i salvati”.
La sua vita si spense l’11 aprile 1987, quando il suo corpo venne trovato alla base della tromba delle scale della propria casa di Torino. Alcuni parlarono di suicidio. Quel che è certo è che i suoi occhi furono preziosi per tutti. Un faro privilegiato sugli orrori del Novecento e sulle ambiguità che caratterizza il nostro essere uomini.