Clandestina e prostituta: nemmeno l’amore la può salvare

21/10/2009 di talentosprecato

L’INTERVISTA Cosa hai visto? Muri alti e spessi, uomini con bende alle braccia ed agli occhi dietro le sbarre.  Alcuni ululavano, altri  chiedevano aiuto. E tu? Hai fatto qualcosa? No, la polizia mi proibiva di comunicarci. Ho visto anche qualche poliziotto passare davanti alle sbarre sputandoci dentro.

Ti sei chiesto cosa fosse successo a quei poveri disperati?
Probabilmente avevano tentato una qualche rivolta e le forze dell’ordine  saranno  dovute intervenire. è disgustoso ma è il loro lavoro, purtroppo. Succede così. Fanno parte del sistema, un sistema sbagliato.
Ma che tu sappia, son deliquenti le persone stipate lì dentro?
Guarda, a detta di un operatore della misericordia, almeno tre quarti sono semplicemente clandestini, magari venuti qui su di un barcone in cerca di salvezza.
E la tua ex ragazza? Come c’era finita dentro?
Come ti dicevo faceva la  una prostituta, ogni giorno facendo la spola tra Torino e Piacenza, come tante altre. Così mi raccontava. Poi magari invece di tornare a Torino si fermava un po’ prima, non so bene.  Solo vent’anni, poveretta, costretta ad andare con sessantenni schifosi, immagina.  Ora che è fuori corre nuovamente il rischio.
Come mai è fuori?
Sono scaduti i termini, piuttosto in fretta. L’hanno fatta uscire dopo circa due mesi.  Comunque costerebbe   meno tenerla in galera per qualche tempo più lungo piuttosto che pagarle in biglietto per tornare a casa. Me l’ha detto un tipo della questura.
Ma quando faceva la prostituta, chi la controllava a Piacenza?
In realtà le nigeriane come lei sono abbastanza,  almeno apparentemente, libere. Arrivate qui vengono riempite di botte e minacciate con riti wodoo.  Bastano questi a trattenerle da qualunque tentativo di fuga. Se ti capita di incontrarne una osservala. Noterai dei segni sul viso, sulle braccia.
Che sono?
Sono i segni lasciati dai riti. Loro ci credono molto. Se lasciano la strada qualcosa di grave accadrà alla loro famiglia.  Questo gli mettono in testa. Oltretutto, se smettono di battere, cosa possono fare per vivere? Io ho tentato di salvarla, ho fatto di tutto, sono stato anche minacciato dal racket all’inizio, volevo farla aderire al progetto “Oltre la strada”, dell’Emilia Romagna, ma non ci sono riuscito, anche se ho lasciato i suoi dati ovunque, così che possano rintracciarla se occorre.
Ma come c’è finita dentro al Cie?
Io ero in Spagna. È successo allora: l’hanno arrestata.  Dopo due giorni lei mi ha telefonato e mi ha detto di essere  stata rilasciata, che l’avevano  messa in una casa protetta, che entro quattro mesi le avrebbero dato i documenti.
Si riferiva al Cie?
Sì, l’ho scoperto il 22 agosto scorso, quando ci sono andato. Era dentro già da quasi dieci giorni.
Non è stato semplice, ho un’invalidità del 100 per cento, mi muovo su una carrozzina elettrica.
Arrivato a Bologna, in via Maffei,  chiedo alla polizia di Stato se posso vederla. Mi viene risposto di no,  perché è necessaria  l’autorizzazione della prefettura. Allora ci vado. Qui mi viene spiegato che devo attendere il lunedì, perché gli uffici preposti di sabato sono chiusi. Mi consigliano però di provare a tornare in via Maffei, di insistere per entrare, di  far  lor capire che per un invalido come me è problematico tornare a Bologna di nuovo. Con me ho tutto: carta d’identità, tesserino sanitario, postepay, carta blu del treno, codice fiscale.
Non avevano certo la scusa di non poterti identificare, dunque, ma come è andata poi?
Il poliziotto capo  mi dice che  sono un rompicoglioni, che la prefettura non capisce un tubo. Mi saluta con un vaffanculo e mi raccomanda di andare a rompere le scatole al Resto del Carlino.
Ma ti fa entrare?
No.
Vai al giornale?
Sì, e mi intervistano. Domenica mattina pubblicano un articolo di dieci righe. Intanto io, la sera -siamo ancora a sabato- torno al Cie.  Mi fanno entrare. Un operatore della misericordia, che è dell’associazione che gestisce la struttura, mi accompagna in bagno. Devo ammetterlo, è stato davvero gentile. Poi chiedo di vedere “Jessica” e, ancora, rispondono di no,  di tornare il giorno dopo.
Torni a casa?
No, perché perdo il treno accessibile alle persone per carrozzella diretto a Piacenza. Resto in giro di notte, a Bologna, solo,  senza assistenza . Chiamo la polizia urbana, arriva la pattuglia e chiedo se la caritas può ospitarmi. Lì però non hanno hanno posto.
E che succede?
Alla fine rimedio in pronto soccorso, dove mi reco verso le due di notte. Mi danno un lettino e dormo un paio d’ore,  tenuto d’occhio dai gentili infermieri e dal medico. Alle sette esco e mi dirigo in Piazza maggiore. Prendo l’autobus e torno al Cie. Lì incontro il capogruppo regionale di rifondazione comunista Masella  che chiede di farmi entrare ai poliziotti, che, nuovamente, rispondono di ripassare nel pomeriggio.  Ritorno ed entro!
La vedi?
Sì, prima mi aiutano nuovamente per andare  bagno e poi me la fanno vedere….
Riesci a parlarle in intimità?
No, è terribile, dentro ci sono militari, doppi cancelli blindati,  telecamere … Io e lei siamo in una stanza video sorvegliata e i poliziotti piantonano l’ingresso . Perquisiscono per ben due volte i regali che le ho portato: dell’intimo, delle t-shirt, un bagnoschiuma, orecchini, lucidalabbra. Lei si sente a disagio ed  io piango . Non riesce quasi a baciarmi tanto si sente a disagio. Poi è scaduto il tempo e sono dovuto andar via. Un taxi mi ha riportato in stazione. Il giorno successivo ho telefonato al Cie e mi hanno chiesto di inviar loro un fax con la fotocopia della mia carta d’identità, che loro avrebbero inoltrato in prefettura.
Volevi tornarci?
Sì, mi hanno detto che dovevo attendere quindici giorni. Invece ne sono passati venticinque. L’ho rivista solo il 17 settembre. Le ho portato una rosa, oltre ai regalini. Ho fatto tutto per lei. Lei mi ha detto di aver fatto richiesta per ottenere asilo politico, ed il 21 ottobre ha l’audizione in commissione territoriale.
Pensi che si presenterà?
Non lo so. Le avevo offerto anche la consulenza gratuita di un avvocato di rifondazione, ma ha rifiutato. Comunque ha un buon avvocato d’ufficio.
Ma vi sentivate mentre lei era lì dentro?
Sì, a volte, con il telefono pubblico. Ne hanno uno per tutti i detenuti lì dentro. Devono pagare per poter chiamare fuori, sempre, comunque, davanti a tutti. Ma la mia ragazza, come gli altri, a volte  preferiva tenere quei pochi euro che venivano dati loro, 2. 50 ogni due giorni,  per prendere qualcosa dalle macchinette, per mangiare. È un ricatto.
Non hanno una mensa?
Sì, gestita dalla Camst. Si mangia male.
Ma no, la conosco.
Si mangia male
Ma tu potevi telefonarle?
Sì, ma non sempre riuscivo a farmela passare. Per questo una volta le ho regalato un telefonino. Si è messa davanti alla telecamera e l’ha infilato nel reggiseno, sperando di non farselo trovare. Capitava che ne avessero anche le compagne di cella. Mi ha telefonato anche con il loro qualche volta. Poi un giorno tutti i detenuti sono stati perquisiti e i cellulari sequestrati.

Mi è stato raccontato che li hanno lasciati nudi, i maschi. Non so se è vero.
Mai sentito di episodi di violenza sulle donne lì dentro? Non so se hai letto di quella ragazza, Raya, pestata  a maggio scorso lì dentro, o di quelle donne bolognesi che son andate davanti al Cie per protestare al motto di “qui si stupra
No,  ad esser sincero non credo, comunque sì, forse ho capito a cosa ti riferisci. In ogni caso mi è sembrato che le donne, molte delle quali sono musulmane vengano trattate meglio rispetto agli uomini.
Quanto tempo restano dentro le persone?
Dai tre ai sei mesi. In genere non troppo, i posti sono affollati.  La mia ex ragazza, ti dicevo, è uscita in fretta,  e non so nemmeno dove sia ora. L’ultima volta che ci siamo sentiti abbiamo litigato.
Torniamo al Cie. Vivono ciascuno in una cella singola?
No, insieme ad altri. La mia ex ragazza aveva sette o otto compagne
E che fanno durante il giorno?
Dormono e guardano la tv. Ce n’è una in ogni cella, appunto, per distrarle

Share this article