Il dramma dimenticato del suicidio infantile

27/02/2012 di Maghdi Abo Abia

In Francia la morte di una bimba di sette anni e mezzo riaccende la polemica

L’Express ci racconta di una bimba di sette anni e mezzo trovata morta impiccata a Sanilhac-Sagriès, nel dipartimento del Gard, in Francia.

PERCHE’? – La polizia sta cercando di capire se la piccola sia morta per un incidente o se si sia voluta togliere la vita. L’unica informazione che hanno in mano gli inquirenti riguarda il disagio che aveva la piccola la sera prima, che non le permetteva di addormentarsi, forse legato al suo ritorno a scuola. L’Express approfitta di questa tragedia per fare il punto sulla questione suicidi in Francia, ormai ritenuti una piaga sociale. Secondo il giornale francese i suicidi tra gli adolescenti, seconda causa di morte nel Paese dopo gli incidenti stradali, sono al momento ben monitorati dalle autorità. Non si può invece dire lo stesso per quanto riguarda i ragazzi tra i 5-13 anni. Ma la ricerca non riguarda solo la Francia e cerca di rispondere a una domanda scomoda e angosciante: perché i bambini si uccidono?

EMERGENZA SOTTOSTIMATA – Boris Cyrulnik, neuropsichiatra e autore dello studio “Quando un bambino si uccide”, sostiene che ormai l’insano gesto si sta presentando con sempre maggiore frequenza tra i piccoli. Il 16 per cento dei bambini al di sotto dei 13 anni sono convinti che la morte sia la soluzione a ogni problema, e ogni anno tra i 30 e i 100 ragazzini riuscirebbero a inseguire il loro scopo. Secondo Cyrulnik, però, questa cifra è di molto sottostimata. Secondo il rapporto da lui studiato, spesso questi tentativi di suicidio vengono interpretati come un comportamento incosciente da parte del piccolo. Scendere da un autobus in corsa, attraversare la strada di corsa, buttarsi nel mare agitato o in un fiume impetuoso, sono tutte attitudini ascrivibili al tentativo di togliersi la vita.

LA MORTE? SI RISOLVE – Non si tratta di gesti premeditati, visto la natura stessa dei bambini, i quali vivono il presente. Cyrulnik continua così: “I bambini, fino a sette anni, sono convinti che la morte sia un passaggio strano e reversibile. Sono convinti che si può morire per raggiungere il nonno che vive su una nuvoletta e aspettare di tornare sulla terra con lui”. I bambini si cacciano in guai pericolosi per sfuggire a un malessere, per domare la morte, per sfuggire alla paura della morte. Si tratta di ragazzi che hanno conosciuto l’eterna mietitrice dopo la scomparsa di parenti o amici.

CHI E’ A RISCHIO – Secondo Cyrulnik la ragazzine riescono a vivere meglio la realtà in cui sono inserite dominando le loro pulsioni e valutando meglio cosa significhi il pericolo. Il tutto perché, a parità di età, sono più mature e responsabili dei maschietti. Si tratta comunque di ragazzi dalla spiccata emotività. “Tutti i ragazzi che manifestano tendenze suicide -continua Cyrulnik- sono soggetti dalla personalità definibile borderline. Sono persone il cui umore cambia per motivi assolutamente futili, sono aggressivi e tendono ad attaccare coloro che amano. Secondo lo studioso avrebbe un ruolo anche la serotonina, triptamina coinvolto nella regolazione dell’umore e che sarebbe carente nei ragazzi dalla personalità così complessa.

COME SALVARE – Il modo migliore per salvare e recuperare i piccoli è quello di garantire loro vicinanza e affetto. E’ la famiglia che deve rassicurare e coccolare il figlio, insegnandogli a gestire al meglio i suoi sentimenti. Se il bambino si sentirà compreso e considerato, sentirà meno l’esigenza di mettersi in pericolo. Sia che si stia parlando di una famiglia numerosa sia di una famiglia a tre elementi, padre madre e figlio, come conferma Cyrulnik, è importante stabilire dei rapporti duraturi e incoraggiare il ragazzo a frequentare la comunità in cui è inserito. Fargli fare dello sport, stimolare i suoi interessi, farlo sentire vivo.

IL RUOLO DELLA SCUOLA – Anche la scuola deve agire di conseguenza. La scuola non è solo allegria, insegnamento, amicizia. Per alcuni bambini può rappresentare uno scoglio quasi invalicabile. Si tratta dei ragazzi provenienti da famiglie difficili o sofferenti di una qualche patologia. Se la scuola li accetta, apre le porte e il cuore, se trovano dei compagni che li fanno sentire speciali, utili, allora non correranno pericoli. Se vengono abbandonati a loro stessi anche in questo luogo, l’unica loro via d’uscita è la morte. E’ ruolo degli insegnanti comprendere e interpretare i segni del disagio: isolamento, aggressività, mal di testa, mal di stomaco. Sono tutti segnali di un pericolo incombente. E’ ruolo della scuola e degli insegnanti aiutare i ragazzi a esprimersi, coinvolgerli, farli sentire importanti.

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