Vuoi convincere al colloquio di lavoro? Chiedimi come

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Prepararsi per tempo. Sapere cosa dire. Fare una buona impressione. Far capire all'azienda che siamo la persona giusta. Una responsabile HR ci spiega che fare

Trovare lavoro. Non è facile, si sa, soprattutto al giorno d’oggi. E anche quando si incontra un’azienda disposta ad assumere, bisogna essere in grado di centrare il bersaglio. Di superare la trafila dei colloqui. Di essere in grado di dimostrare all’azienda che il candidato giusto siamo proprio noi, che saremo in grado di non deludere l’azienda e di essere una parte importante del progetto che essa vuole costruire. Davanti a noi, ad ascoltarci e valutarci, i responsabili degli uffici del personale.



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L’INTERVISTA – Lei è la direttrice delle risorse umane di una grande azienda attiva nel mercato delle telecomunicazioni.

Nel suo ufficio ci sono i dati di quasi 400 fra dipendenti e collaboratori. A lei abbiamo chiesto come funziona il suo lavoro, cosa vuole trovare in un candidato e quand’è che scatta la scintilla che porterà all’assunzione.



Qual è la prima cosa che lei guarda in un candidato ad un posto di lavoro?
Guardo come si pone, come saluta, come gestisce l’approccio e l’inizio del colloquio. Ciò che non si vuole vedere, in generale, sono atteggiamenti di maleducazione: salutare senza guardare in faccia, o non salutare affatto, passare subito al tu. Quel che guardo non è tanto un’ideale di comportamento, ma i modi in generale della persona perché proprio quelli danno subito l’idea del tipo che si ha di fronte. Ci sono quelli più spigliati, quelli più timidi, quelli più in soggezione, quello che capisce subito dove si deve sedere; insomma, punto a capire subito qualcosa del carattere.

Quali sono le caratteristiche irrinunciabili che una persona da assumere deve avere?
Buona educazione, nessuna boria, motivazione: e per motivazione intendo, prima di tutto, che ci si dovrebbe ricordare perché si è lì, proprio in quel colloquio. Che ci si è informati sul tipo di lavoro per cui ci si candida, riguardo l’azienda e il contesto in cui ci si trova. Ad esempio la mia azienda si occupa di rete, di Internet, e questo è un contesto in cui serve un minimo di passione appunto per il web; è qualcosa che si dovrebbe voler fare, con il cuore. Quel che piace incontrare è una persona che quantomeno nel momento del colloquio dà l’idea di essere interessata. Ho bisogno di sentire che c’è qualcuno a cui piacerebbe lavorare nella mia azienda e che è disposto anche convincere l’azienda ad assumerlo. Bisogna dirlo, che si vuole lavorare proprio qui da noi, bisogna saper rispondere a domande tipo: “Quale contributo pensa di portare all’azienda? Cosa crede di trovare da noi? Quale valore aggiunto è in grado di fornire?” Insomma, perché si pensa che noi potremmo essere l’azienda giusta. Bisogna, se necessario, essere anche in grado di fare un passo verso chi ti potrebbe assumere: ci sono persone che si prodigano nel fugare un eventuale dubbio dicendo cose del tipo “mi trasferisco anche a Milano, non c’è problema”, e altri che dicono “no, il mi progetto è quello di andare a vivere a Salerno”. Ecco, magari cose del genere è meglio evitarle. Probabilmente questo non è il posto giusto per te, insomma.



 

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Cosa è che le fa dire: ecco, è lui, o lei, è quello giusto, assumiamolo? cosa la colpisce in una candidata o in un candidato?
Penso che il candidato che ho di fronte sia la persona giusta quando “matchano” da un punto di vista anche strettamente motivazionale, ovvero anche prima di un secondo colloquio tecnico, le nostre esigenze con le sue competenze e caratteristiche personali; è fondamentale che la persona sia adatta al nostro contesto lavorativo e viceversa.  In questo senso non  esistono “risposte giuste” alle mie domande ma contano soprattutto quelli che sono i propri punti di forza, le proprie motivazioni. Quindi è vero, sì, in parte è necessario che il candidato si conosca, sappia chi è e chi vuole essere nella vita, almeno un pochino. Per dare possibilità al selezionatore di conoscerlo veramente e di valutare i suoi punti di forza.

Molti neolaureati ci riferiscono che l’Università non riesce in nessun modo ad indirizzare verso un posto di lavoro. Le è mai capitato di essere contattata dai servizi placement delle Università milanesi, ad esempio? 
No, con l’università non mi è capitato, più spesso invece con i master che hanno una struttura tale per cui ci sono degli stage obbligatori alla fine del percorso formativo. Così chi ha organizzato e gestito un master ha interesse a far presente alle aziende di settore che ci sono determinati ragazzi che hanno un qualche tipo tipo di competenza, magari interessanti per noi, per l’azienda. Da qui a dire che l’università si preoccupa di fornire questo tipo di servizio in effetti ce ne passa, non mi è mai capitato. Direi dunque che vale la pena di investire in un master,  anche perché non è vero che tutti i corsi del genere sono particolarmente onerosi. Può essere, dunque, un canale di inserimento interessante.

Alle persone che ci leggono e che stanno progettando un colloquio di lavoro, che consigli darebbe?
Naturalmente, e prima di tutto, mai spacciarsi per ciò che non si è, barare non solo non è utile ma è anche dannoso. Detto questo, direi di andare liberamente ad un colloquio, quando ciò significa naturalezza e genuinità della persona. Il che non è assolutamente in contrasto con l’esigenza di prepararsi e preparare il colloquio: e non intendo tanto una preparazione tecnica in senso stretto, perché il primo sarà sempre un colloquio conoscitivo e motivazionale. Il colloquio sulle potenzialità concrete, sull’inserimento del candidato nel progetto e nel workflow, arriverà semmai dopo.

E come prepararsi per questo colloquio?
Innanzitutto, avendo chiara la posizione per cui ci si è candidati e mostrando interesse per l’azienda, sulla quale si saranno raccolte un po’ di informazioni. Il candidato deve dare al selezionatore la possibilità di capire le sue attitudini, la sua motivazione e i suoi interessi; deve fornire tutti quegli elementi che considera importanti per ottenere quel posto; deve avere idee abbastanza chiare su sé stesso e sul mondo, nei limiti di quanto è consentito dall’età del giovane. Insomma, si deve riuscire a trasmettere il messaggio: “Anche se non so una cosa, so dove andare per impararla”. Poi non guasta mostrare una certa cultura generale, intendo dire il fatto di essere persone minimamente informate, calate nel loro tempo…soprattutto quando parlo con un giovane che dovrebbe avere un minimo di rapporto con le nuove tecnologie, a volte sento cose strane. Intendo: se ci si presenta per lavorare in una società come la nostra senza aver mai aperto un sito o un social network,  è un problema. Serve avere una conoscenza almeno generale, ma mirata, del settore nel quale cui ci si candida per lavorare, anche perché a volte la preparazione universitaria non è come ce la si aspetterebbe. Da quel che vedo, soprattutto in informatica, si esce dalle facoltà con una preparazione inadeguata, e in azienda si fanno cose che sono, spesso, più avanti. E per questo è importante riuscire ad essere anche autodidatti e un po’ “smart”, così da essere in grado di colmare le lacune che dovessero presentarsi.

Che cosa direbbe ad un ragazzo che domani ha un colloquio di lavoro?
Direi di cercare di stare tranquillo; non sono tempi facili, lo vediamo tutti, ma è bene ricordare che un colloquio andato male non è un dramma. Mi piace pensare che questo ragazzo giunto alla vigilia di un colloquio abbia una struttura emotiva tale da consentirgli di superare bene un eventuale insuccesso e anzi, magari di trarre da esso qualche spunto o idea per proseguire nella ricerca del proprio “posto nel mondo” (ricordando anche che il mondo non è limitato alla sola Italia…). Non nego che ci sia comunque una responsabilità per noi selezionatori: quella di tentare di mettere in piedi un colloquio che sia il meno “stressato” possibile; se mi trovo davanti una persona che appaia un po’ più insicura o sfiduciata, senza autostima, poco sicura di sé, che abbia dunque una struttura emotiva più fragile, dovrò impostare il colloquio im una modalità molto tranquilla e rilassata. Ovviamente la responsabilità non può mai andare oltre il risultato del colloquio: il mio non può che essere un auspicio.

Parliamo del licenziamento. Quanto è sopportabile, per un datore di lavoro, e quando è che invece si è davvero superato il segno e bisogna allontanare il dipendente?
Ogni azienda è guidata da valutazioni interne e dalle leggi in materia, attualmente in via di revisione, che illustrano le procedure di richiamo e di licenziamento. Sono questioni molto delicate.

A suo parere, perché il mercato del lavoro italiano è così difficile?
Detto che stiamo attraversando una crisi economica globale piuttosto pesante, forse in Italia scontiamo in più alcune rigidità che hanno reso più faticosa l’introduzione di un modello di flessibilità ormai imprescindibile. E’ sicuramente più faticoso andare avanti in queste condizioni per le aziende, ci si sente più ingabbiati; e non è solo una questione di funzionamento delle aziende, è una questione di struttura della società. Il modello di flessibilità dovrebbe essere meglio gestito con l’aiuto degli ammortizzatori sociali dallo Stato, ma arrivati a questo punto non può non esserci: perché il modello produttivo delle aziende è diventato ormai molto più complesso e molto più mobile, le attività iniziano velocemente e più facilmente possono finire. Non è più il tempo delle grosse industrie come la grande Fiat che nascono, poi passano a consolidarsi e poi rimangono come colossi quasi eterni. C’è molta più facilità, ad esempio, a delocalizzare le attività: dunque la gestione di una flessibilità che sia però serena è a mio parere un’esigenza imprescindibile.

Grazie.
A voi.