Le Mans ’66: James Mangold in conferenza stampa “Una sfida romantica”

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James Mangold durante la conferenza stampa ci racconta della realizzazione del nuovo film Le Mans ’66, basato sulla grande vittoria della Ford contro la Ferrari.

Le Mans ’66, il nuovo emozionante film del regista James Mangold, con Matt Damon e Christian Bale, uscirà in Italia il 14 novembre. Durante la conferenza stampa Mangold ha parlato del processo di ricerca e realizzazione del film. Della direzione degli attori e anche del suo personale concetto di cinema.



Da un grande storyteller come lei, signor Mangold, credo che derivino grandi responsabilità.

James Mangold: “sì, io sento una grande responsabilità. Troppi dei nostri film ci fanno letteralmente addormentare piuttosto che svegliarci. Non nel senso che sono noiosi, ma mirano di più a tenerci occupati, a intrattenere. Invece che a farci riflettere, sulla vita per fare un esempio. Mi piace realizzare film, ma credo che se io partecipassi a far addormentare le persone, cioè a non farle pensare… forse non farebbe per me. E dovrei rinunciare a girare film”.



Remo Girone, lei che indicazioni ha ricevuto sul set da James Mangold?

Remo Girone: James è un grande regista nella direzione degli attori. Io credo che mi abbia insegnato molto. Ha un occhio molto attento e si accorge subito se l’attore dà troppo l’impressione di recitare. E se lavora a favore della macchina da presa o no. Insegna agli attori non essere troppo dei personaggi.



Secondo lei questo film è una metafora del film making moderno? Abbiamo Corporation da un lato e gli artisti da un altro. Potrebbe essere un po’ come Hollywood, o come il mondo in generale. Da parte il denaro e l’arte dall’altra?

James Mangold: sì, per ognuno, per ogni battaglia in questo mondo. Io rivedo anche me stesso in un certo senso. Anche perché è realistico, per realizzare una macchina servono molte cose, non solo il denaro. Ma anche gli sponsor, la manovalanza e la fiducia ovviamente. Comunque sì, per rispondere alla domanda: è vero. Credo che lo sforzo per realizzare le cose mira ad evangelizzare e convincere gli altri. Per certi aspetti credo che il nostro film sia romantico. All’epoca c’era una certa innocenza nell’ambiente. Ora gli sport sono una questione aziendale. Negli anni ’60 le aziende iniziavano a rendersi conto, come noi, del valore promozionale degli sport. Adesso la situazione è tre, forse anche quattro volte, peggiore di allora. Nei film spesso ci sono queste regole di commercio. Ma è anche questo il motivo per cui amiamo i film. Non è come dipingere, i pittori non hanno tutti questi sponsor e queste regole da seguire. È una scelta entrare in questo mondo.

James Mangold e Remo Girone

Com’è stato lavorare con due grandi star come Matt Damon e Christian Bale? Remo, lei in questo film, Enzo Ferrari, è visto un po’ come un uomo da battere. Com’è stato interpretare questo personaggio che per il nostro Paese ha fatto qualcosa di straordinario?

James Mangold: come Remo sono entrambi molto… semplici da gestire e dirigere. Loro amano il loro lavoro e non lo vedono solo star. Come star del film, ma come attori. Io non ho molta pazienza in molti ambiti. In questo film di tanti grandi attori, io mi sento come un padre per loro. Deve essere un team. Sono stati tutti attori molto generosi che amano il proprio lavoro. Alcuni li conosco da tantissimi anni. Con Christian Bale ho fatto un altro film. Altri li conosco dal 1977. Quindi ho avuto la sensazione di fare un film con degli amici.

Remo Girone: è stato bello. Sapere di essere  stato un personaggio molto conosciuto nella Storia italiana, quasi universalmente. Sul set tutte le macchine realizzate erano a grandezza naturale e guidate da piloti veri. A me non mi conoscevano come attore, ma quando hanno capito che avrei interpretato Ferrari hanno tutti voluto una foto con me.

Volevo chiedere al regista com’è stato il processo di ricerca? Dei libri e delle biografie dei personaggi del film.

James Mangold: è stato uno sforzo monumentale. Avevamo un intero team che si è occupato della ricerca. Ci sono tantissimi documentari e filmati, perché era un qualcosa di pubblico. Ci sono tantissime registrazioni, foto, film, anche quelli aziendali. La cosa più interessante era ricercare la parte intima di questi personaggi. Personalmente la mia scena preferita è stata quella sulla pista di atterraggio. Tra Ken Miles e il figlio. Il loro dialogo è vero, quelle sono reali parole di Ken Miles. Sul suo personale modo di vedere le corse e sulla sua filosofia. È stato Christian Bale a trovarle. In un certo senso parla del tipo di matrimonio che l’uomo doveva avere con la sua macchina. Per capirla. Per comprendere cosa si potesse, e cosa non si potesse, fare.

Remo Girone: vorrei aggiungere che oggi per un attore è anche più facile. Con internet si possono trovare moltissime cose. Io ho visto un’intervista di Enzo Biagi a Ferrari. Un video in cui Ferrari parla di sé, i suoi collaboratori che lo descrivono. Quindi per documentarsi oggi come attore è più semplice.

James Mangold e Remo Girone

Come ha ricostruito questo tipo di macchina molto particolare come la Ferrari 330 P3? Perché non credo sia quella originale.

James Mangold: tutti lo chiedono, sì. C’è una Ferrari del ’66 che era in pista. Ma per comprarla avremmo dovuto spendere il doppio del budget usato per il film. Quell’auto ha un valore di 30 milioni di dollari. Sarebbe stato impossibile anche solo poterla usare. L’abbiamo ricostruita, sì. Abbiamo ricostruito moltissime macchine. L’unica macchina originale era della fabbrica di Remo. Ma l’abbiamo solo tenuta lì, non l’abbiamo usata per girare. Il proprietario metteva sempre, in continuazione, un telo per proteggerla. Nel garage di Ferrari c’è più di una macchina originale. E molte macchina da corsa.

Remo Girone: comunque erano macchine costruite a grandezza naturale, che andavano sulle piste ed erano guidate da piloti veri.

C’è una scena nel film in cui Shelby dice che: la velocità e la vittoria non si comprano. Ma quello che è successo in questa gara è stato un po’ anti-sportivo. Ford ha cercato di decidere un ordine di arrivo. Anche il furto dei cronometri, che non so se sia stato vero o meno. Il bullone messo lì sulla pista. Cosa pensa di questo aspetto?

James Mangold: sì, certo. Non faccio un film sugli angeli. La realtà è che quello che noi sappiamo dalle ricerche e dalla documentazione. Tutti coloro presenti ai Box cercando di mettere in difficoltà gli altri team. Rubando cose, lanciandone altre. Facendo addirittura finta di essere felici quando sono tristi, e viceversa. Cercano tutti di vincere la lotta e la crisi psicologica che si crea in quel momento. Quando Shelby dice: non puoi comprare la vittoria in le Mans, è perché la velocità non basta per avere la vittoria. Le Mans è una gara di resistenza. La macchina non deve solo essere veloce, ma deve poter girare per 24 ore. Una gara di 24 ore, per via della lunghezza dei tempi, dà la sensazione di un test sulla sopravvivenza. Il vincitore è puro, non si può comprare. Se c’è un difetto nella progettazione della macchina, facendola girare per 24 ore, questo errore verrà sicuramente scoperto. La GT era la migliore macchina in pista. Ciò che dice il personaggio non vuol dire per forza che io penso che sia giusto ciò che dice. O che io stesso lo pensi. Si può scegliere e selezionare ogni battuta. Quello che dicono Shelby e Ford nel film rispecchia ciò che loro pensavano. Io non do risposte nei film, ma domande, il film non è una frase. Io ho cercato di rappresentare entrambe le parti. La vita è comunque troppo complicata per essere ridotta semplicemente ad una frase.

James Mangold

Nonostante le corse automobilistiche siano spettacolari e cariche di suspence, non ci sono molti film che le hanno trattate. Perché secondo lei, e da quale necessità è partita l’idea per questo film?

James Mangold: io sono partito dal fatto che ho amato la storia. Ho visto la possibilità di un film cinematografico perché c’è molto da dire. C’è azione, c’è battaglia in corso sulla pista. Chi non conosce la Storia si trova di fronte ad un corso degli eventi emozionante. Magari si sorprende, dato che ci sono dei pregiudizi riguardo ai film sulle corse automobilistiche. Non è così semplice, anche se lo sembra. Per quanto riguarda i pochi film sulle corse non lo so. Forse il guadagno basso di quelli realizzati. Ci sono molti film sulle macchine. I crime, gli action, i detection, i road movie sono tutti film sulla macchine. L’auto è una metafora della vita del 20° secolo. Non si può mettere solo un auto sul palcoscenico. La macchina da presa stessa è stata realizzata anche per questo. Per poter riprendere all’interno di un auto. Siamo due persone diverse tra quando camminiamo e quando guidiamo. Una macchina ci caratterizza, è una specie di maschera. Forse si dovrebbe cogliere maggiormente l’aspetto dell’automobile come metafora della vita.

Miles è stato un soldato nella seconda guerra mondiale. Il film potrebbe essere una metafora di come gli americani vincono la guerra europea?

James Mangold: no, sono felice di aver risolto il suo dubbio. In realtà è una storia vera, ho solo raccontato la sua storia. Lui non vince. Il suo racconto si conclude da solo. È una metafora di molti americani che non vincono.

C’è una guerra però tra gli uomini della Ford e i protagonisti?

James Mangold: certo, però non credo che nulla sia così diretto. L’arte getta delle ombre, ma si può trarne un proprio significato. Io credo che qualsiasi film o regista non riesce a raccontare in una frase la metafora. Almeno io non ci riesco. Nei film non si tratta mai di un qualcosa di così specifico. È più universale. Non è la guerra, né gli Stati Uniti. Oltretutto Miles nel film è gallese.

L’impatto estetico di Le Mans ’66 è incredibile. Ci sono molte inquadrature particolari. Come è arrivato a questo tipo di estetica e come lavora con il direttore della fotografia?

James Mangold: io e lui siamo molto amici, come fratelli. Ci vogliamo bene, litighiamo, ci conosciamo da 50 anni. Abbiamo fatto 5 film insieme. Credo che per entrambi non conta che film stiamo facendo, vogliamo sempre trovare la vita interna. L’interiorità dei personaggi, la loro bellezza. Io vedo il mio lavoro in maniera semplice. Credo che l’effetto speciale più difficile non si può acquistare da uno che fa effetti speciali. Ma significa fotografare, vedere i pensieri, percepire le emozioni dalle espressioni, dal volto delle persone. Io voglio fare film che rimangano nel cuore del pubblico. I miei preferiti mi hanno fatto provare qualcosa, non erano troppo costosi o spettacolari. Ricordo dov’ero, con chi ero e come stavo quando li ho visti. Cerco ogni giorno di realizzarlo. Attraverso inquadrature bella e particolare. Anche lui lo condivide. L’importante è sempre andare all’interno. Catturare il pensiero, quel tipo di verità che solo con il cinema si può fare. Per catturare questa percezione.

Volevo chiedere com’è stato il montaggio. Che tipo di lavoro e approccio c’è stato?

James Mangold: è stato un mix di montaggio, di direzione della fotografia, di stunt. Dirigere il tutto. Ho un grande team addetto al montaggio, ho lo stesso montatore ormai da 20 anni. Noi ci prepariamo molto prima, facciamo dei test. Io non sono fan di sport automobilistico, non guardo le gare in tv, lo trovo noioso. La sfida è come realizzare qualcosa sullo schermo per non essere noioso come le gare. Sono lente, loro seguono le macchine e sembra che questi non si muovano. Sono dei punti sullo schermo. Non si sa cosa succede dentro la macchina. Il pilota è chiuso nel casco, quello che succede al motore è un segreto. Ciò che succede all’interno della macchina e del pilota non interessa. Noi volevamo capire cosa succedeva e perché, cosa il pilota pensa e prova nella macchina. La sua strategia, i suoi sentimenti. Per entrare nella realtà. Abbiamo pianificato le scene prima del montaggio e poi le abbiamo messe insieme. Sono tutte coinvolgenti. Dagli eventi in sé alla scoperta dei sentimenti profondi.

James Mangold e Remo Girone

Raccontare personaggio di Lee Iacocca che sembra il buono della Ford.

James Mangold: mi è piaciuto tantissimo il personaggio di Lee Iacocca. Per me è una delle cose che mi ha colpito di più quando ho ingaggiato Jon Bernthal. Quando ne ho sentito parlare ho saputo che lui e i suoi genitori erano una famiglia di migranti di prima generazione. Arrivati in Pennsylvania. Lee si era fatto strada nella Ford con un grande sforzo. Gli altri collaborati erano quotati in borsa. Erano studenti di economia, questa era la strada naturale. Lee era l’unico che veniva da una vita semplice, che per talento, con sforzo e valore era riuscito a fare questo percorso. Alla fine ha dovuto comunque lasciare la Ford per poter avere la voce che voleva avere.

C’è anche un aspetto per Girone, parallelo tra corporate thinking e personalità. Cioè arriva dove un gruppo di macchine non arriva. Quante volte ha dovuto tirare fuori la personalità per imporre le sue idee nel suo settore?

James Mangold: non ho dovuto combattere per il film molte volte. Gli studios ci hanno dato molto sostegno. A loro piaceva l’idea del film, con questi attori nel film. Credo che il successo è stato anche, se devo essere onesto, grazie al successo dei precedenti. A film come Logan, che gli ha dato particolare successo. Le Mans ’66 è un film ambizioso, per adulti, come Logan. Grazie a questo abbiamo potuto partecipare senza la Marvel. Vediamo cosa succederà

Remo Girone: avere la fortuna di entrare in un tipo di film come questo vuol dire cercare di farlo al massimo delle tue possibilità. Perché si può sbagliare. Cerchi di essere preparato al meglio perché è un’occasione. La nostra vita di attori si basa su queste occasioni che capitano. E uno cerca di essere all’altezza della situazione. È l’unica cosa che possiamo fare. Sono molto contento di essere stato la prima scelta del regista.

Come è stato scritturato il signor Girone?

James Mangold: lui è stato la mia prima scelta, ho visto un video di ciò che ha fatto. L’ho trovato magnifico. Non potrei essere più felice del risultato. È stata una grande gioia, tutto il cast per me è motivo di grande orgoglio. Da remo a tutti gli altri. Veramente, ciascuno di loro potrebbe reggere uno film da solo. La generosità faceva parte di ogni membro del cast, anche di chi è apparso per poco. Io ho sempre ricercato attori che si identificassero con il personaggio. Non voglio che l’attore sia troppo diverso dal personaggio. Voglio che abbiano qualcosa in comune, credo che sia giusto così. I grandi attori del cinema italiano, americano e francese hanno attori che sono vicini a ciò che sanno far meglio. Sono se stessi. Sono vicini alla loro verità, e non è una cosa facile. In particolare farlo vedere di fronte alla macchina da presa. Io cerco di trovare questo tipo di persone. Che condividono gran parte della loro personalità,

Parlando di attori, a proposito del bambino. Con l’esperienza maturata su Logan, ha pensato di dare un ulteriore punto di vista? Nonostante i protagonisti siano Damon e Bale, chi ha figli sente il punto di vista del bambino. Che è raccontato bene e dà intensità della storia.

James Mangold: non l’ho pensata in questi termini, non in relazione a Logan. Credo che sia per cogliere più cose insieme. Ken Miles sembrava avere più aspetti, sulla pista e a casa. Era ossessionato dalle macchine, ma era anche un dolce marito e padre. Tutto ciò gli dava più spessore. Per me il film non ha un finale felice o triste, ci arriva con grazia. Per consentire al pubblico una sorta di cuscino su cui atterrare. Il rapporto tra Ken e il figlio cercava di far arrivare l’idea che le cose proseguono, nulla finisce. E che si va avanti.