Per Gianni Riotta Assange e Wikileaks sono «spionaggio e intelligence»

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Per Riotta l'attivista australiano ha portato avanti un'attività di spionaggio che poco ha a che fare con il giornalismo

All’indomani dell’arresto del discusso ex capo di Wikileaks Julian Assange, non si placa il dibattito nella stampa italiana. Un dibattito che va avanti ormai da dieci anni: parliamo di giornalismo o di guerra cibernetica, libertà d’informazione o spionaggio? Domande che non sempre trovano risposta, in un mondo dove i confini fra hacking e informazione sono labili e non sempre è facile trovare un’univoca interpretazione dei fenomeni. Chi sembra non avere dubbi è invece Gianni Riotta, che in un editoriale su La Stampa non esita a definire il lavoro di assange come un’operazione di spionaggio.



L’opinione di Riotta sul caso Assange

«Il grande miraggio della lunga storia di leaks, soffiate dal fondatore di Wikileaks Julian Assange, al militare USA Bradley  Manning (che adotta il nome femminile di Chelsea), all’ex agente dell’NSA riparato nella Russia di Putin, Snowden, al team dei media complottisti capitanati da Glenn Greeenwald, è che si tratti di una campagna di libero giornalismo, quando è invece magari al di là delle intenzioni di qualcuno, raid di spionaggio e intelligence». A parte l’ingenerosa definizione di Chelsea Manning, che piuttosto che essere un “soldato americano” che adotta un nome femminile, è una persona affetta da disforia di genere che ha cambiato sesso, ci sono punti che non tornano nell’analisi di Riotta.



Hacking: le vere ragioni dell’arresto di Assange

Per Riotta c’è una differenza sostanziale tra giornalismo intelligence e cyberwar e correla nell’editoriale l’arresto di Assange alle elezioni americane nel 2016, che hanno portato al potere Donald Trump, ma è devvero così? In realtà, come ben ricostruito da Valigia Blu, la messa in stato d’accusa per il fondatore di Wikileaks ha davvero poco a che fare con il “Russia-Gate” di cui si sa ancora poco, ma riguarda tutt’altro genere di fatti, su cui l’interpretazione può essere difficilmente così univoca.

L’accusa di hacking risale al 2010, ovvero di quando l’organizzazione di Assange diffuse i circa 90 mila Afghan War Logs, i 400 mila Iraq War Logs, gli 800 assessment brief di detenuti a Guantanamo chiamati The Guantanamo Files, e i 250 mila cablo della diplomazia USA (lo scandalo passato alla storia come “Cablegate”), raccolti dall’ex militare americano Chelsea Manning. Oltre a riportare importanti informazioni strategiche, questi dati documentavano anche abusi dell’esercito americano sui campi di battaglia o le violenze sui detenuti nel campo di prigionia di Guantanamo. Secondo l’accusa Manning voleva però accedere a una rete ancor più protetta e prelevare documenti protetti da segreto di stato e nel far questo ha chiesto l’aiuto di Assange. L’accusa dell’hacker australiano è in sostanza quella di avere cercato di violare la password necessaria a ottenere quelle credenziali di accesso di più alto livello. E tutto ciò avveniva molto prima di Trump e del leaks delle mail della Clinton che Riotta cita indirettamente nell’editoriale.

L’appello di Reporters Sans Frontiers

Non si capirebbe altrimenti del resto, l’appello di Reporters Sans Frontiers che si rivolge alle «Autorità britanniche per privilegiare i suoi principi di libertà d’espressione e di protezione del ruolo del giornalismo e delle fonti giornalistiche nel trattamento di Assange, tenendo presente anche il diritto britannico e i diritti umani». Secondo l’associazione il Regno Unito deve negare le domande di estradizione proveniente dagli americani, in quanto «volte a sanzionare le sue attività legate al giornalismo». Insomma, per la massima organizzazione di difesa della stampa mondiale, Assange sembra qualcosa di più di una semplice “spia” coinvolta in una guerra cibernetica contro gli USA.