Discorsi tipici di uno schiavo

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Una riflessione molto interessante sull'universo del precariato

*Ospitiamo l’intervento di Carmine Mercuri, un nostro lettore ingegere elettronico con la passione per la scrittura. Cura il blog Lettere dalla periferia dell’Impero ed è autore della raccolta di poesie Apnea. La sua è una riflessione che ci ha particolarmente colpito sul mondo del precariato, tema da sempre molto sensibile per la testata Giornalettismo. 



Precariato, la riflessione che ospitiamo nella giornata di oggi

Luca, lo chiameremo così. Ha trentanove anni, diremmo quaranta. Metà della sua vita. A quel punto della vita, la spada di Damocle dei bilanci, dei rimorsi e dei ripensamenti, si stacca dalla corda alla quale è appesa e ti piomba in pieno petto. E quella di Luca è pesante. Assai. Luca a quaranta anni fa il “rider”, un bell’anglicismo, che si usa come altri, per indorare le pillole all’italiana. Fa il fattorino detta “papale papale”, per una grande multinazionale del precariato a domicilio.

Luca infatti è precario. L’azienda, anche se nella sostanza concepisce lui ed i suoi colleghi come dipendenti, li tratta poi da “autonomi” con false partite iva o contratti capestri. Del resto le forme contrattuali nel nostro paese sono roba da prima rivoluzione industriale, sempre per chi un contratto ce l’ha. Luca? No ferie, no malattia, no infortuni, nulla.



Marco, ventidue anni, avrebbe voluto studiare ingegneria, a scuola era il più bravo nelle materie affini, ma i genitori non potevano permetterselo, madre cassiera part time, padre impiegato. Così ha fatto la prima cosa che gli è venuta sotto. Non potendo fare l’ingegnere, fa l’operaio nei cantieri edili. Rigorosamente a nero, rigorosamente con orari flessibili, rigorosamente senza protezioni alcune. E deve pure stare attento, perché se alza una sola parola di reclamo, ci sono sempre i clandestini, altra carne da macello, pronti a fare di più e meglio. Marco si sveglia alle cinque, alle sei e mezza è in cantiere, torna a casa distrutto per le diciassette, con l’unica forza che è quella rimasta per stravaccarsi sul divano. Ogni santo giorno. Non esce, non ha più amici, nè una ragazza. Come Luca del resto. Ingranaggi silenti ad occhi bassi del capitalismo 4.0.

Poi c’è Franco, partita Iva, Gianni, piccolo imprenditore che sta sempre sull’orlo del suicidio, ed insieme a loro una galassia di personaggi di questo bel presepe di lacrime e sangue. Nell’era della comunicazione veloce, dei cittadini-consumatori, delle risorse umane, ancora, per ogni essere umano esiste un momento di quiete che assurge ad essere un tribunale implacabile, pronto a misurare e giudicare la propria vita. La notte. “La notte porta consiglio”. Forse. Più probabilmente porta disagio. Buona parte delle persone di cui sopra si svegliano, sudano, si girano e rigirano nel letto, tentando di placare questo giudice senza pietà, ma a ragion veduta non si può che fare ammenda con dei discorsi tipici dello schiavo per citare Silvano Agosti. “Non è colpa mia, questo c’è e questo mi posso prendere, ormai ho un età”. “Ma si, le condizioni sono quello che sono, ma c’è chi sta peggio”. “Ueh, il lavoro è questo prendere o lasciare”.



Un’intera sfilza di induzioni e deduzioni tutte sul filo della legittimazione rimuginata della propria posizione di schiavo. Te ne convinci. Anche perché il sistema non lo puoi cambiare, sei solo un granello di sabbia, chissà quanti ce ne stanno come te, o peggio di te. E quando lo schiavo si autoconvince con i suoi tipici discorsi, che in qualche modo la sua schiavitù è modernissima, a banda minima garantita di 10MB/s, anche se non basterebbero tre stipendi per comprare uno stramaledetto iPhone, lì la società canta il suo peana. Lo canta “il Contratto Sociale ” tra stato e cittadino che non esiste più da un pezzo, demolito dall’economia che ha fagocitato la politica, lo canta una società che si atomizza, dove ognuno si rinchiude in sé stesso a parte Gianluca Vacchi o Chiara Ferragni, che ti vendono un sogno vuoto che non potrai mai avere e per il quale ti sforzi di “pedalare”, lo canta una società che sull’alienazione ed il bisogno indotto del consumo, ha ormai costruito il suo bosco verticale.

Non torneremo mai esseri umani finchè saremo vittime di alienazione, che ci spinge a comprare compulsivamente per riempire la nostra solitudine, invece di coltivare rapporti umani. Più in generale non torneremo mai più umani finché non capiremo che questo modello di sviluppo è sbagliato, basato sul sangue di tanti e la felicità di pochi. Tutti hanno diritto alla felicità. Purtroppo però, queste ultime considerazioni sono veramente di pochi, di chi ha il lusso di avere tempo per poter pensare. Gli altri sono sparati a mille all’ora ogni giorno per produrre, consumare, non hanno tempo, se non di pensare cosa mangiare a cena. Il demonio di tutti rimane quel coniglio con la maschera d’acciaio, come nel film “Donnie Darko”. Un amico sviluppato da questa schizofrenia sociale, che di notte ci martella, ed al quale possiamo rispondere solo cercando di difenderci alla meglio, mettendo a posto la coscienza, oppugnando al suo sguardo fisso ed imbarazzante, discorsi tipici dello schiavo.