Lo sapevate? Leonardo Di Caprio, come Tom Cruise, non vincerà mai un Oscar. Almeno fin quando non saranno a un passo dall’ultimo atto della vita e della carriera (e non è neanche detto).
E’ vero, nessuno dei due era candidato quest’anno. Ci siamo consolati con la prima statuetta a Julianne Moore, dopo cinque nomination. Ma il punto è che anche quando non c’è, Leo, è il centro di tutti i retroscena di Hollywood: è un divo, ha le donne migliori del mondo, è persino attore e cineasta impegnato. Un’icona. Eppure all’Academy lo trattano come l’ultimo dei cretini. Da quando affondò con il Titanic: premiarono tutti, al Kodak Theatre, quella notte. Tranne lui. Un caso? Sfortuna? E’ scarso? No, è qualcosa di deciso a tavolino. Mai detto espressamente, ma noto a tutti.
Leonardo Di Caprio, infatti, ha un difetto clamoroso per Hollywood. Averla snobbata da sempre. Dopo Titanic, che lo portò su tutte le copertine e gli diede fama mondiale, grazie all’impresa titanica di Cameron, lui scelse una carriera lontana dai cachet multimilionari, rinunciò a far fare soldi a palate alle major, ebbe l’ardire e l’audacia di seguire un percorso proprio, ostinato e contrario rispetto ai dettami della Settima Arte oltre oceano, in cui rispetto a produttori e cineasti contano più contabili, addetti marketing e fiscalisti.
Lo avete mai visto interpretare un supereroe? Lo avete mai ammirato in un melodrammone d’amore di quelli superpompati al box-office? Si è mai legato a qualcuno che non fosse Martin Scorsese? No, infatti. Eppure sul mercato vale almeno 22 milioni di dollari a film (e quando li prende li usa per i suoi documentari sull’ambiente o per poter accettare grandi progetti, ma fuori dai circuiti dei blockbuster). Lui ha strumentalizzato la sua popolarità per fare arte e lo paga quasi ogni anno, nella penultima settimana di febbraio. I circa 8000 giurati, quasi tutti legati alle major, come elementi di cast tecnici e artistici, sanno che il votare Di Caprio sarebbe sgradito a chi dà loro da vivere. E in fondo sono ben felici di penalizzare uno che è rimasto grande pur scegliendo una carriera diversa, che loro magari non hanno avuto il coraggio di portare avanti.
E, diciamocelo chiaramente, anche Tom Cruise, con ambizioni persino maggiori, ha fatto lo stesso. Ci ha provato anche a far cambiare idea all’Academy, con Nato il 4 luglio, L’ultimo Samurai, Operazione Valchiria, Codice d’Onore e con i ruoli da “non protagonista” in Magnolia e Tropic Thunder. Poi si è rassegnato al suo ruolo di sputasoldi in Mission Impossible & Co. Il buon Tom, ottimo attore sottovalutato per le sue faccette, per le mogli e per Scientology, è stato più a lungo di Leo nell’alveo di Hollywood, poi maturando ha sterzato cercando i Kubrick (altro che agli Oscar è stato maltrattato), gli Stone, gli Anderson. E addirittura ha cercato di rimettere in piedi la United Artists, ripercorrendo il sogno di Chaplin di far tornare gli attori economicamente centrali, provando a (ri)costruire una major di interpreti e per gli interpreti. Un affronto sul campo dell’industria stessa: troppo. Non a caso Operazione Valchirie valse un sostanziale fallimento, favorito da piccoli grandi ostracismi di avversari e non in produzione e distribuzione, come già alla UA accadde per I cancelli del cielo di Cimino. Così Cruise si è accontentato, in carriera, di tre nomination all’Oscar e tre Golden Globe (il premio dei critici internazionali).
Perché agli Oscar non piace solo umiliare, ma anche beffare, mostrare le facce dei nemici mentre, per l’ennesima volta, non vincono. Lo fanno sempre, anche fuori da quel teatro piccolo e deludente, tutti i giorni. Parlate con Mickey Rourke: per The Wrestler avrebbe dovuto vincere la statuetta a mani basse, ma gli fu preferito Sean Penn, indipendente sì ma di sicuro non ribelle come il seduttore di 9 settimane e 1/2, che non si è fatto problemi a dire la sua, anche su quella cerimonia, persino pochi giorni prima.
E chiedete a Shyamalan quanto gli costò e gli costi ancora la battaglia Warner-Disney, ad esempio. O a uno come Bogdanovich perché negli ultimi 30 anni ha fatto solo due film di finzione. E ce ne sono molti altri di cui potremmo parlare.
Sono premi artistici, insomma, ma in cui le multinazionali dell’audiovisivo sono fondamentali. Lo sa Scorsese, tra i pochissimi a non aver tradito la New Hollywood e che ci ha messo decenni a vincere quell’Oscar per cui persino il suo barbiere lo sfotteva. Lui l’ha fatto vincere a tutti – tranne che a Di Caprio -, ma ha dovuto aspettare il peggiore tra i suoi film migliori, The Departed, per conquistare il suo.
E se volete un ulteriore esempio, sappiate che il cinismo dei soldi non si ferma neanche di fronte alla morte. Sono passati a miglior vita due grandi italiani nel mondo del cinema e una ragazzaccia di Brooklyn. Ora, sarà pure una dimenticanza che Francesco Rosi, Palma d’oro a Cannes nel 1972 per Il caso Mattei, Leone d’Oro nel 1963 con Le mani sulla città a Venezia, Orso d’Argento a Berlino per Salvatore Giuliano nel 1962, sia stato escluso dal famoso filmato “in Memoriam”. Facciamo finta che sia così, nonostante sia piuttosto difficile pensarlo: all’Academy lo conoscono avendogli dato la nomination per Tre Fratelli (un delitto che non abbia mai vinto una statuetta, figuriamoci quella candidatura tardiva). E sarà una dimenticanza pure che la graffiante outsider Joan Rivers non abbia trovato cittadinanza in quel montaggio strappalacrime. Però è curioso che invece si siano ricordati di Virna Lisi, che pur avendo voltato le spalle a Hollywood pagando una ricca penale alla major che la usava come jolly in qualsiasi produzione, anche altrui, ma che in America per lo meno ci è andata.
Per carità, nessuna voglia di intravedere un “gomblotto” così meschino. Ma di sicuro ti scordi più facilmente di chi non si è inchinato a te, di chi ha mantenuto la schiena dritta senza farsi sedurre da potere, denaro e sistema.