Le varie crisi economico-finanziarie che si sono alternate nel corso degli ultimi decenni, hanno portato il mondo del lavoro a cambiare forma. Non solo quella del mercato della domanda, ma anche di quello dell’offerta. Ed è proprio da tutto ciò che è nato il concetto di “gig economy“. E l’evoluzione di Internet e – più in generale – del mondo digitale, ha velocemente amplificato l’evoluzione di questo fenomeno. E se prima erano le aziende a offrire lavori di questo tipo, oggi sono i lavoratori a proporsi seguendo questo concetto.
LEGGI ANCHE > Data Protection Officer: chi è, cosa fa e quanto guadagna
Per avere una definizione tangibile e una spiegazione appropriata del concetto di gig economy ci affidiamo al vocabolario dell’Enciclopedia Treccani, nella sezione neologismi: si tratta di un «modello economico basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo, e non sulle prestazioni lavorative stabili e continuative, caratterizzate da maggiori garanzie contrattuali». Questa delucidazione offre già uno spazio di riflessione: perché si tratta sì di un modello lavorativo che offre nuove opportunità professionali, ma non permette a chi sposa questa “causa” di avere le stesse tutele dei contrattualizzati con le forme che potremmo definire “tradizionali”.
Tutto nasce da una crisi. In particolare, da quella finanziaria che ha colpito moltissimi Paesi del Mondo (anche solo di riflesso) tra il 2007 e il 2008, proseguendo – nei suoi effetti nefasti non solo sul costo della vita, ma anche a livello di posti di lavoro e stipendi – anche negli anni successivi. Una crisi di liquidità, in alcuni casi anche di solvenza, che ha colpito banche e – di conseguenza – interi Stati. Istituti di credito o finanziari (il caso più emblematico, con immagini amaramente iconiche che sono rimasse impresse nei capitolo della storia contemporanea, è quello della Lehman Brothers che fallì ufficialmente il 15 settembre del 2008) furono costretti a chiudere i battenti, facendo anche perdere il posto di lavoro a migliaia di cittadini.
Una situazione di precarietà generalizzata. Lavoratori senza più un posto di lavoro, mancanza di liquidità e una recessione universale che, al termine del 2009, portò il Prodotto Interno Lordo (PIL) a un calo globale del 2,2%. Ed è proprio da quelle ceneri, che continuarono a bruciare per diversi anni, che nacque la gig economy. E questo concetto apparve per la prima volta nel 2009.
Il fenomeno della gig economy non si è più arrestato. Anzi, con le crisi successive il suo effetto e impatto si è amplificato. Perché i riflessi economico-finanziari di tutto ciò che è accaduto nel mondo a partire dal biennio 2007-2008 hanno condizionato ancor di più due aspetti: il tipo di offerta e le esigenze dei singoli lavoratori. E con la pandemia Covid-19 esplosa in tutto il mondo nei primi mesi del 2020, i “giggers” (gig workers) si sono moltiplicati. Dopo lo choc iniziale a livello sanitario, c’è stato anche quello a livello occupazionale. Molte aziende, anche in Italia, dopo aver usufruito della cassa integrazione, si sono viste “costrette” a procedere con molti licenziamenti. Altri lavoratori, invece, hanno scoperto lo smart-working e molti di loro hanno preso coscienza di come internet e la rete possano snellire e rendere più flessibile il mondo del lavoro. Non è un caso che, infatti, nel periodo delle cosiddette “grandi dimissioni” si siano moltiplicate le figure che si sono offerte al mondo del mercato per progetti, lavori a tempo, collaborazioni e consulenze.
A parlare di tutto ciò fu Tina Brown che in suo editoriale pubblicato sul The Daily Beast commentò ironicamente questa nuova tendenza – definita Gigonomics – che si stava palesando nel mondo del lavoro. La direttrice e fondatrice del portale di informazione americano, infatti, era partita dai dati di un sondaggio in cui si era palesata questa nuova direzione occupazionale: sempre più “Gig” (che nel vocabolario inglese-americano sta per “lavoretti occasionali) legata al nuovo mondo di quell’economia basata sul lavoro. La crisi economico-finanziaria ha portato, dunque, aziende a “offrire” lavori più flessibili (anche senza “esclusività”) e i cittadini a cercare – spesso anche per assenza di alternative – questa tipologia di contratti.
Abbiamo, dunque, una data di riferimento, l’evento scatenante e l’evoluzione nel corso degli anni. Poi c’è stata anche l’evoluzione del digitale e di internet. Perché il web ha dato un grande contributo allo sviluppo della gig economy. Molte delle professioni che rientra, oggi, in questo ambito sono strettamente collegate alla rete e a tutti i suoi riflessi. In che senso? Per spiegarlo, utilizziamo la definizione data dall’antropologa Tatiana Mardare: «Gli operatori della Gig Economy sono persone che hanno mediamente una buona conoscenza della tecnologia informatica, sono spesso laureati o professionisti già affermati e decidono di “non accontentarsi” delle risorse derivanti da un impiego “normale” e definiscono da soli il livello di benessere da perseguire». Insomma, si parla – come condizione principale – di autonomia nella gestione del tempo e dello spazio. Di quel confine tra il tempo privato e quello lavorativo gestito in completa indipendenza e libertà. Opportunità che quelle che possiamo definire lavori e forme contrattuali standard non possono offrire.
Questo, dunque, è il quadro generale che racconta la gig economy e il mondo di Internet. E da qui emergono, in particolare, delle peculiarità positive e altre negative. I pro, ovviamente, riguardano la flessibilità: un “giggers” può scegliere il tipo di lavoro a cui approcciarsi (o per cui proporsi), scandire il proprio tempo tra la vita lavorativa e quella professionale. Ma non c’è solo il quando, ma anche il dove. Perché molte delle “professioni” legate a questo aspetto possono svolte da remoto: da casa, da uno spazio di co-working o da altri posti che non hanno la valenza fisica del classico lavoro da ufficio. Proprio perché legati al mondo del digitale, del web e di internet. E, proprio per tutti questi motivi, l’accessibilità al mondo del lavoro – seguendo queste dinamiche – è maggiore.
Ma oltre ai pro ci sono i contro. E sono tutti legati all’aspetto meramente economico. Perché la flessibilità di non avere tempi e spazi “obbligatori” porta molte altre incertezze sul futuro. I contratti su cui si basano la gig economy, infatti, non offrono molte delle tutele giustamente ricercate da chi lavoro: i fondi pensione, congedi pagati per malattia (o gravidanza) o tutto ciò che comporta la “disoccupazione”. Perché non avendo un lavoro contrattualizzato secondo le formule standard, tutto ciò non può essere normato dalla firma su un accordo. E questi contro rischiano di rendere molto meno luminosi i pro. Perché preferire solo il presente rispetto al futuro non può che rappresentare un aspetto negativo.