Nel caso del video di Vagnato, la Procura ha “aggirato” un emendamento USA e il Codice Privacy

Categorie: Attualità

Il video è stato oscurato sulla pagina YouTube del TikToker ancor prima della decisione del Tribunale del Riesame. Ma ci sono due aspetti normativi che riguardano i principi di diffamazione e diffusione di dati personali

Tra le parole del pm Francesco Cajani sulla querela per diffamazione nei confronti del tiktoker Gabriele Vagnato, emergono due concetti che rendono il provvedimento – prima disposto dal gip e poi confermato dal Tribunale del Riesame – di sequestro preventivo di un video pubblicato su YouTube un vero e proprio unicum per il nostro Paese. Un evento che crea un precedente nella gestione di quel che viene postato sulle piattaforme social, in particolar modo per quel che è possibile fare senza dover necessariamente attendere le rogatorie internazionali. 



LEGGI ANCHE > Perché il Tribunale del riesame ha confermato il sequestro preventivo di un video del TikToker Gabriele Vagnato

Suddivideremo questo approfondimento in due parti, iniziando dalla prima parte del testo redatto dal pm di Milano Cajani in merito alla consapevolezza della Procura sui limiti di azione in casi come quello della diffamazione (in questo caso attraverso un video) a mezzo social. Come riportato da Il Corriere della Sera, infatti, il pubblico ministero ha detto di sapere perfettamente che



«in tema di diffamazione, alla luce del primo emendamento della loro Costituzione non è possibile ottenere dalle società americane, neppure tramite rogatoria, la rimozione di contenuti dalla Rete, nonostante il trattato di mutua cooperazione Stati Uniti-Italia assicuri che l’assistenza debba essere prestata anche quando i fatti non costituiscono reato in Usa».

Dunque, la Procura di Milano è consapevole di non poter richiedere alle aziende con sede negli Stati Uniti, la rimozione di un contenuto pubblicato su queste piattaforme. Il motivo? Il primo emendamento della Costituzione a stelle e strisce che recita:



«Il Congresso non potrà emanare leggi per il riconoscimento di una religione o per proibirne il libero culto, o per limitare la libertà di parola o di stampa o il diritto dei cittadini di riunirsi in forma pacifica e d’inviare petizioni al governo per la riparazione dei torti subiti».

Questo paletto statunitense (Paese in cui ha la sede legale e fiscale Google, insieme ai suoi server principali) non permette di poter agire in termini di richiesta di rimozione di contenuti, anche se diffamatori. Anche se in Italia fattispecie di questo tipo costituiscono reato.

Gabriele Vagnato, quali “leggi” possono aiutarlo

Sempre tra le righe delle parole del pm Cajano, emerge un altro aspetto fondamentale per capire come la decisione del sequestro preventivo del video di Gabriele Vagnato crei un precedente importantissimo:

«A seguito della riforma dell’articolo 167 del Codice della Privacy non appare più configurabile (come invece in passato) la possibilità di sanzionare il trattamento illecito di dati personali effettuato attraverso l’indebita pubblicazione Internet di video a prescindere dal consenso dell’interessato, norma che invece consentirebbe l’esito positivo di una interlocuzione con le società o l’autorità giudiziaria americane».

Ma cosa dice l’articolo 167 del Codice della Privacy? Concentriamoci nella lettura del comma 3, quello che riguarda il possibile trattamento illecito di dati personali con la pubblicazione sul web:

«Salvo che il fatto costituisca più grave reato, la pena di cui al comma 2 si applica altresì a chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all’interessato, procedendo al trasferimento dei dati personali verso un paese terzo o un’organizzazione internazionale al di fuori dei casi consentiti ai sensi degli articoli 45, 46 o 49 del Regolamento, arreca nocumento all’interessato». 

Tutto ciò, però, non spiega il riferimento fatto dal pm in merito al video di Gabriele Vagnato. Occorre, infatti, capire come il d.lgs 101/2018 sia intervenuto per modificare gli effetti dell’articolo 167 del Codice della Privacy. Nello specifico, con quell’intervento legislativo sono stati abrogati i tre articoli (45, 46 e 49) del documento. Di fatto, dunque, quei “casi consentiti” individuati non esistono più. Si trattava di tutti i riferimenti al trasferimento di dati verso Paesi terzi, comprese le violazioni e le implicazioni in ambito giudiziario. Con le modifiche del 2018, non è più possibile pensare a una sanzione per un caso come quello di diffamazione attraverso un video pubblicato su YouTube.