Faccia d’angelo: la storia della Mala del Brenta

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Felice Maniero e la sua “quarta Mafia”: una sanguinaria organizzazione criminale a cavallo fra gli anni ’80 e i ’90



Nebbia. Piccole case, centri urbani un po’ sempre uguali, adagiati sul corso del fiume; un tessuto urbano tranquillo e placido, una vita che scorre forse monotona fra le campagne della bassa pianura padana, nel profondo nord-Est, fra Venezia e Padova: terra di gente che lavora, che produce; una terra che proprio negli anni di cui raccontiamo stava preparandosi a diventare da acquitrino maledetto, luogo di emigrazione, di fuga, di povertà a terra di benessere, di azienda e piccola impresa. Ed è proprio in queste zone che, fra il 1980 e il 1990, imperversa una delle più sanguinarie bande criminali d’Italia, la Mala del Brenta di Felice Maniero, detto Faccia d’Angelo.

FRA PADOVA E VENEZIA – Un figlio di quella terra, un figlio della piccola criminalità, dell’illecito quotidiano e diffuso che però sapeva pensare in grande, e sapeva imparare dai buoni maestri che il destino gli mise di fianco: criminali autoctoni, del Veneto, tradizionali banditi dediti al furto di capi di bestiame, e mafiosi, uomini d’onore che lo Stato fece l’errore di trapiantare in soggiorno obbligatorio in terre che non conoscevano la criminalità organizzata di stampo mafioso, proprio nelle province di Padova e Venezia, e che insegnarono a quella terra e a quella generazione come diventare dei veri e propri industriali del crimine. Il capo indiscusso, piano piano, diventò lui, Felice Maniero, ragazzo dalla faccia sempre sorridente e sempre felice, un sorriso che uccideva, una Faccia d’Angelo mortale. Fra gioco d’azzardo, droga, racket, e molti, molti molti denari che iniziarono a girare nelle tasche dei criminali del Brenta, la storia della criminalità veneta diventa potente e intricata, una narrazione epica quasi quanto quella della mafia del sud Italia a cui è peraltro paragonata: la quarta mafia, venne chiamata l’organizzazione criminale fondata da Felice Maniero, ricco, amante del lusso, donnaiolo (pieno di figli in giro per l’Italia), violento, di metodi spicci ed interessato a raggiungere il suo obiettivo ad ogni costo e ad ogni mezzo. Carlo Lucarelli racconta la sua storia in una puntata di un suo programma.





TERRA CRIMINALE – Felice Maniero nasce a Campolongo Maggiore, sulla strada che va da Padova a Chioggia, che corre verso sud, verso la parte bassa della laguna di Venezia. Il padre, Ottorino Maniero gestisce un piccolo locale bar trattoria in cui non mancano traffici non del tutto chiari: ha un carattere irruento, beve e, insieme al fratello Renato, è parte della banda di Adriano Toninato, un bandito che si occupa principalmente di furti di bestiame, un criminale vecchio stampo soprannominato “Il Giuliano della Valpadana”, come lo storico criminale siciliano insomma. Toninato, scrivono i libri su di lui, aveva creato la mala del bestiame per fame: fra Piove di Sacco e Campomaggiore, in queste terre paludose, nel dopoguerra c’è solo fame e povertà. Felice Maniero cresce in questo humus fertile, ma punta molto, molto più in alto. Impara dai ladri di bestiame l’Abc del crimine, ma guarda lontano: mentre lui cresce – è nato nel 1954 – cresce anche il veneto che, quando Felice si affaccia all’età utile per fare un po’ di bisboccia, è diventato ricco. Ricco d’oro, principalmente, se si pensa che nella regione veneta viene lavorato il 25% del biondo metallo mondiale. Così, Felice mette in piedi la sua banda: è ambizioso, non si ferma davanti a niente, tanto da riuscire a mettere sotto scacco, e a sistema sotto il suo controllo le preesistenti organizzazioni criminali che erano dedite allo spaccio di droga.

DIVENTARE RICCHI – Gli stupefacenti saranno uno dei mercati principali della mala del Brenta: insieme alla droga, comprata dalla mafia o dall’estero e rivenduta al dettaglio in tutto il Veneto, ci sarà il racket dei Casinò e delle bische illegali, le rapine agli uffici postali, alle gioiellerie e alle imprese, così come la sottrazione di opere d’arte illegali finalizzate al ricatto nei confronti dello stato. Felice Maniero e i suoi criminali del Brenta saranno banditi a tutto tondo, sempre concentrati a fare più denaro, più soldi, più ricchezza anche per soddisfare la sete di lusso di Faccia d’Angelo, insaziabile in questo senso. I soldi, in questi anni ruggenti, sono ad esempio al Casinò di Venezia, dove Maniero si dirige ad armi spianate per prendere il controllo del mercato dei cambisti: sono i personaggi che cambiano assegni a tassi da usura a tutti i disperati che hanno lasciato al banco tutto quello che avevano portato e, divorati dal demone, devono giocare ancora, e ancora, e ancora. Dopo un’iniziale resistenza, qualche pallottola nella testa giusta aiuta ad ammorbidire anche i più dubbiosi, e l’intero mercato finisce sotto il controllo di Maniero, che pretende il 50% di tutti i ricavi dei cambisti.

UN CARTELLO CRIMINALE – L’organizzazione, l’alleanza di Maniero con i vari gruppi criminali regionali è salda e gerarchicamente accentrata su di lui. Ci sono i veneziani dei fratelli Rizzi, che hanno il controllo della città “dal Ponte della libertà” in giù; oltre il ponte ci sono “i mestrini”, di Mestre insomma; a nord, sopra Venezia e fino al confine friulano, c’è la banda di San Donà di Piave, capeggiata da Silvano Maritan, e oltre Mestre, fino a Padova, regna Felice Maniero, che tanto regna comunque visto che tutti quanti devono comprare la droga da lui – che, a sua volta, la acquista dalla mafia palermitana, dalla camorra e dalla stessa Colombia – per differenziare – così come l’eroina, che Maniero compra direttamente dagli spacciatori turchi. Tutti al proprio posto, tutti inquadrati, nessuno sgarra dalla rigida organizzazione di Felice Maniero: chi ci prova, muore. E’ il caso dei fratelli Rizzi, protagonisti di quella che voleva essere una scissione “interna” per aumentare la propria fetta di mercato ai danni del gruppo di Mestre: i Rizzi uccidono uno dei loro migliori spacciatori, Giancarlo Millo, detto il “marziano”, fedele a Maniero. Sei mesi dopo i Rizzi vengono invitati ad un meeting criminale sulla terraferma, con una scusa: Felice aveva detto di voler organizzare con loro un’azione criminale. Invece, li ucciderà a sangue freddo e metterà al vertice della cosca di Venezia un uomo fidato. Un altro esponente del cartello criminale viene ucciso ad Eraclea Mare perché aveva scelto di rifornirsi di droga anche autonomamente, mettendo in discussione il monopolio di Maniero.

GLI ARRESTI E LE EVASIONI – Rimarranno nella cronaca i suoi rapporti personali con il presidente croato, con cui si era accordato per favorire l’ingresso di armi e di droga oltreconfine. Tutto, nel nordest che diventava ricco, era di Felice Maniero: la droga, le rapine, la ricchezza, le case da gioco. La sua mala del Brenta era diventata velocemente una realtà criminale operativa di primissimo ordine, per una parabola che, per quanto breve sia stata, ha lasciato il segno: si ricordano le sue alleanze operative con la mafia, la camorra, le organizzazioni estere come la mafia dei marsigliesi. Parabola che declina velocemente dopo il pentimento del grande capo, di Felice Maniero, arrivato nel 1995 dopo l’ennesimo arresto: già, perché nella storia di Faccia d’Angelo c’è anche una serie di rocambolesche evasioni. Nel 1987 evade dal carcere di Fossombrone, peraltro insieme a Giuseppe di Cecco, membro della colonna milanese delle Brigate Rosse; riarrestato nel 1993 viene portato nel carcere di Vicenza, dove tenta di evadere corrompendo due secondini, che però vuotano il sacco un attimo prima che il piano venga messo in opera: allora il detenuto viene portato a Padova, nel supercarcere che doveva essere inespugnabile e che invece, grazie alla corruzione dell’ennesima guardia carceraria questa volta andata a buon fine, è il carcere da cui Maniero riuscirà ad evadere insieme al suo braccio destro, Antonio Pandolfo, e ad altri fedelissimi. L’evasione segnala il punto più alto del criminale del Piovese, e, dunque, anche l’inizio della sua fine.

LA FINE DI MANIERO – Mesi dopo, nel novembre del 1994, viene ricatturato a Firenze e nel 1995 decide di pentirsi, vuotando il sacco su tutto ciò che sapeva e che aveva fatto – conoscendo il soggetto, si dice che abbia parlato perché non sopportava che qualcun altro, anche se fosse stato uno dei suoi fedelissimi come Silvano Maritan, boss di San Donà di Piave,potesse prendere il suo posto.Il processo lo vede condannato a 11 anni di carcere e 60 milioni di lire di multa complessivi, ben poco per il boss che aveva terrorizzato il nord-est, grazie alle attenuanti generiche e agli sconti di pena per la collaborazione. Lo stato lo alloggia in una villa faraonica – simile a quella che Maniero aveva comprato per la madre, l’unica donna che probabilmente amava, ricambiato, visto che Lucia Carrain non rinunciò mai a coprire il figlio anche quando era chiaramente colpevole – per gli arresti domiciliari, d’altronde parliamo dell’uomo che si era fatto portare spaghetti all’astice durante il processo; sempre in virtù della sua collaborazione Felice Maniero entra in carcere per scontare la sua pena solo nel 1998. L’ultima delle misure restrittive contro Felice Maniero è scaduta nel 2010, e Faccia d’Angelo è tornato libero con una nuova identità e svolge l’attività di imprenditore in un luogo segreto; della fiction di Sky su di lui, dice, secco: “Non la volevo, dimenticatemi”.