E’ uscito in Gran Bretagna l’ultima opera dell’autore del Codice Da Vinci, e come ampiamente prevedibile, le imprecisioni e gli errori storici abbondano
LA STORIA – A fare da scenario alle ultime vicissitudini di Langdon non più l’Europa, ma il cuore pulsante del potere americano, Washington, e avrà solo 12 ore per risolvere il rompicapo sventando il complotto massonico. Il luogo dell’ambientazione rievocherebbe le relazioni massoniche di George Washington, fondatore della città (la cui stessa pianta urbanistica ne richiamerebbe i simboli), disegnata dall’architetto e urbanista, nonché secondo quanto si legge nel libro anch’egli un massone, Pierre Charles L’Enfant. Langdon si presenterà in Campidoglio dietro l’invito del suo amico Peter Solomon, ma una volta giunto a destinazione di Solomon troverà solo la sua mano amputata con sopra tatuati dei simboli massonici. Una mano che parrà indicare con la sua posizione un dipinto del 1865 raffigurante il primo presidente degli Stati Uniti, George Washington, nelle vesti di una divinità pagana. Del tema del libro offre un chiaro indizio la copertina con l’immagine della Casa Bianca che campeggia all’interno di una piramide rossa alla cui sommità compare un simbolo massonico, la stessa piramide che si trova vicino all’effigie del presidente Washington su tutte le banconote di un dollaro americano. Langdon non sarà solo, potrà contare sul supporto e poi inevitabilmente sull’amore della sorella di Solomon, Katherine, esperta di noetica. Il teorema fondante del libro poggerebbe le basi sul presunto fondo gnostico-massonico dell’ethos americano. Per tutti gli avvincenti sviluppi della vicenda vi rimandiamo alla lettura del libro la cui uscita in Italia, per la Mondadori, è prevista per il prossimo Natale.
LE IMPRECISIONI – Non solo rose per Brown, già qualche spina prova a pungere velenosa. Sono infatti molti a storcere il naso per le inesattezze e le imprecisioni storiche di cui è farcito il libro, ad esempio sulla presunta adesione alla massoneria di L’Enfant che invece avrebbe progettato il Plan of the City of Washington nel 1791-1792 ricevendone indicazioni non da George Washington, ma da Thomas Jefferson. Oppure le inquietanti descrizioni sui riti scozzesi della massoneria e il suo dirigente Albert Pike che sarebbero pura invenzione di un finto massone che ammise l’impostura pubblicamente nel 1897. Inutile dire che Dan Brown ha più volte voluto precisare che i suoi sono solo romanzi (come quelle di Bennato solo canzonette) e non saggi storici che debbano fare i conti con debiti riscontri ed essere rigorosamente attendibili. Alle voci del coro di detrattori dello scrittore se ne aggiunge una illustre, quella dello storico Michael Baigent che di recente peraltro ha perso una battaglia legale proprio contro Brown, reo a suo dire d’aver attinto a piene mani le teorie sui Merovingi e la Maddalena inserite nel Codice Da Vinci da alcuni suoi libri, tra tutti Il Santo Graal. L’occasione di infierire gli è stata offerta da The Daily Beast che lo ha contattato per chiedergli la sua disponibilità nello scrivere una recensione sull’ultimo libro del suo acerrimo nemico.
QUALCOSA DI MEGLIO DA FARE – Insomma Dan Brown secondo Baigent non meriterebbe il successo riscosso dai suoi romanzi, che giudica scaltre operazioni di marketing al contrario di suoi colleghi più scrupolosi e di talento come James Lee Burke, John Grisham, e Lee Child. I personaggi dei suoi libri risultano infine piatti, ombre preda di trame sempre più prevedibili e scontate. Ciò che salva invece è l’atteggiamento assunto nel libro sul tema della massoneria, ne spiega bene i meccanismi interni. Altra bacchettata sulla mano per la descrizione che Brown fa di una cerimonia massonica in cui si beve da un teschio umano. Una scena, precisa Baigent, che ha più probabilità d’avvenire in un tempio tibetano piuttosto che in uno massonico. L’interrogativo dello storico a margine della sua recensione impietosa è se non fosse meglio che Dan Brown invece di passare le sue giornate incollato al computer a spulciare dai motori di ricerca occupasse il tempo in modo più avvincente. Potrebbe attraversare il deserto del Sahara, fare trekking sul Tibet, recarsi in Kashgar o in Irkutsk per un anno dedicandosi allo studio dello sciamanesimo dell’Asia centrale o se proprio la sua pigrizia non glielo consente fare due chiacchiere con i nativi d’America. Chissà, magari scoprirebbe di avere davvero qualcosa di cui scrivere.