Come funziona un ristorante McDonald’s

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Un viaggio nella cucina di un locale appartenente al gruppo della Grande M. Come mai negli ultimi anni la catena si è avvicinata al gusto dei clienti puntando sulla genuinità e sull'italianità?

Come funziona un ristorante McDonald’s? Ve lo siete mai chiesto? O addirittura non ve lo siete mai chiesto limitandovi ad aspettare impazientemente quel Big Mac che non vuole saperne di arrivare e che magari viene servito a quell’antipatico che pur di starvi davanti in fila vi ha piantato una strategica gomitata?



COME IL CLIENTE CAMBIA L’AZIENDA – Attenzione, quello che andrete a leggere non è uno “spottone” pro fast-food ma un semplice viaggio in una realtà da molti usata e goduta anche se spesso denigrata, in quanto si associa all’idea di “fast food” uno standard di qualità molto basso, l’intenzione di puntare sulla quantità anziché sul prodotto per accontentare le masse gioisamente in fila nell’intenzione di gustare un panino che “chissà cosa c’è dentro”. Questa è invece una lezione relativa al ruolo dei consumatori nei confronti dei fast-food e come i clienti con il passare degli anni grazie alla ricerca di una maggiore qualità abbiano costretto una multinazionale a virare dall’idea di “facciamo mangiare loro quello che vogliamo” a “diamo loro quello che vogliono”. Una realtà forse denigrata ma che dà lavoro a circa 50 persone a ristorante per un fatturato medio anno di circa due milioni e 300 mila euro, per usare le parole di Marco Ferrero, direttore marketing e comunicazione di McDonald’s Italia.



VIAGGIO IN CUCINA – Per capire bene come funziona la realtà di un ristorante McDonald’s siamo andati al punto vendita di Milano Duomo. Per chi è pratico della zona, il ristorante posto dietro la statua equestre di Vittorio Emanuele II, attualmente in ristrutturazione. Prima di proseguire sappiate che potete farlo anche voi partecipando a una sessione di “cucine aperte“. Ad accompagnarci nel giro è Gabriella, responsabile del ristorante. Prima di addentrarci una raccomandazione: “attenzione, non toccate niente perché le friggitrici stanno a 215 gradi mentre le piastre a 180. Potreste farvi male”. Immaginate la cucina come fosse un triangolo. La base è rappresentata dalle casse e dal banco dove vengono posti i prodotti finiti. Il lato di sinistra ospita i fritti mentre quello di destra è la cosiddetta “zona carne”. Al centro vi è un divisorio, chiamato “isola centrale” rappresentato dalla tostarice del pane e dal banco degli condimenti, dove trovano posto salse, insalate e confezioni nel quale poi porre il panino.



LA COTTURA – Il pane viene tostato per 35 secondi. Avete presente la griglia per i panini dei chioschi notturni? L’idea è simile, con la differenza che si tratta di un macchinario temporizzato con un apposito cicalino che inizia a suonare quando è il momento di levare via il pane. La carne invece viene cotta in apposite piastre automatiche dalla temperatura fissa di 180 gradi. Ogni piastra è regolata a seconda del panino da creare, quindi vuol dire che in quella degli hamburger non verrà cotta la carne del Big Mac. Al fianco di questi macchinari ci sono le “ceste” con dentro la carne surgelata la quale dovrebbe essere raccolta con dei guanti monouso per poi essere depositata sulla piastra. Diciamo dovrebbe perché durante la visita un addetto non lo ha fatto.

VIVONO 10 MINUTI – La durata di cottura cambia a seconda del panino in quanto cambia la dimensione dell’hamburger. Ad esempio per il Big Mac la carne viene cotta per 109 secondi mentre nel caso degli hamburger la durata è di 63 secondi. Sopra le piastre trovano posti i vassoietti per il bacon, ovvero la pancetta. Questa arriva in cucina già surgelata e viene scongelata all’aria. Il tempo di scongelamento è di circa mezz’ora ma la sua vita “commestibile” è di circa 4 ore. La sua presenza poi determina l’assenza di sale nella carne di quel panino. Se dovesse “avanzare” verrebbe smaltita. E questa è la parte più semplice del piano. I panini vengono preparati prima della cottura della carne, come fosse una catena di montaggio. Facciamo un esempio: devo ordinare un hamburger.

IL CONDIMENTO DEL PANE – Se non ho la fortuna di trovarlo nel “bin”, ovvero in quello che potremmo volgarmente definire “dispenser” piazzato dietro alle casse, questo viene preparato al momento seguendo quest’ordine. L’hamburger viene messo a cuocere nello stesso istante in cui si mette a tostare il pane. 63 secondi meno 35 fa 28. Nei 28 secondi rimanenti l’addetto condisce il pane con la salsa e i cetrioli e poi arriva con un vassioietto appoggiato al bordo della griglia. Finita la cottura prende l’hamburger, chiude il panino, va al banco dietro il “bin”, lo incarta e lo appoggia nei binari.

TUTTO IN SCATOLA – Discorso diverso invece per quanto riguarda i panini più elaborati come ad esempio il Big Mac. Il panino con i condimenti viene preparato direttamente nella sua scatola così una volta preparata la carne si può chiudere il tutto, chiudere la scatola e ficcarlo già nel bin il quale garantisce una vita del prodotto di dieci minuti. Se in questo tempo non viene consumato, ecco che il panino viene “smaltito”. Dallo stomaco alla pattumiera. Questo discorso però non funziona con i panini a base fritta. Se la carne cuoce al massimo per 109 secondi, i vari fritti richiedono un tempo di cottura medio di quattro minuti e mezzo.

TRA PRODUZIONE E RICHIESTA – Questo significa che non possono essere preparati al momento ma bisogna giocare un po’ d’anticipo. Per questo, e così presentiamo l’ultimo macchinario dell’isola centrale, il “cassettone di mantenimento” dei prodotti fritti. Come spiegato da Gabriella il lato “carne” ragiona secondo un’ottica di “produzione”, ovvero in base al flusso dei clienti si decide quanto mandare in cottura. Per quanto riguarda i fritti invece si agisce su “richiesta”. Appena ne viene ordinato uno compare su un monitor la quantità di panini desiderata. Ma visto che ci si mettono quattro minuti e mezzo, viene cotto del cibo in più che viene “stoccato” dentro il cassettone, il quale garantisce una vita di venti minuti.

LAVORO PRESTABILITO – Un sistema di produzione industriale quindi, e come ogni industria che si rispetti è necessario raggiungere uno standard giornaliero di vendite. Come spiega Gabriella “ogni giorno il sistema informatico interno ci dice qual è l’obiettivo di vendita da raggiungere suddiviso nelle varie fasce”. Ovviamente parliamo del frutto di un’analisi statistica che prende come riferimento l’affluenza media nelle diverse fasce del giorno e in diversi giorni. Ad esempio il responsabile di esercizio sa benissimo che alle 17 di un sabato di periodo scolastico ci sarà molto più da fare rispetto alle 17 di un martedi feriale.

MERITO DEI CONSUMATORI – L’obiettivo da raggiungere in genere è comunque sempre lo stesso, ovvero si viaggia tra i 750-800 panini venduti ogni giorno. Una catena di montaggio, roba da far commuovere Henry Ford. Cerchiamo ora di capire insieme una cosa. Perché secondo voi è necessario fare un viaggio in una cucina McDonalds? Per far vedere quanto sono buoni e cari a preoccuparsi per noi? Perché abbiamo avuto un regalo? O per far capire quanto è importante la forza del consumatore e le sue abitudini? Perché come ha confermato Roberto Masi, Amministratore Delegato di McDonald’s Italia, sono stati i consumatori a far cambiare rotta alla filiale italiana della multinazionale della “M” gialla.

SBAGLIAVAMO A PUNTARE SUL GUSTO – “Negli anni ’90 eravamo convinti che la via per la fidelizzazione della clientela passasse attraverso il gusto. Ebbene, sbagliavamo”. Queste le parole di Masi che aggiunge: “negli ultimi quattro anni abbiamo capito che la gente non vuole qualcosa di buono ma qualcosa di sano, di riconoscibile, possibilmente italiano e che sia certificato da qualcuno”. Il marketing si è accorto con il passare degli anni che al consumatore non interessa sapere che una catena di fast food dica “ehi, mangia la mia carne che è buona, te lo dico io”. Anzi, più s’imbatte in questo atteggiamento, più rimane diffidente. Per dirne una da ragazzo quando facevo parte della pletora di adolescenti che affollava il McDonald’s di Corso Vittorio Emanuele sentivo dire “si ok, carne buona e quello che vuoi ma secondo me ci mettono i topi nella piastra”.

LA QUALITA’ DEL CIBO AL TERZO POSTO NELLA VITA – Ebbene. Non è più così. O meglio, non è mai stato così ma le grandi aziende del settore agroalimentare hanno deciso di adeguarsi a quella che è la vague ormai decennale della Csr, Corporate Social Resposability, ovvero un termine che racchiude i valori etici di un’azienda, valori da certificare conto terzi. Secondo una recente ricerca prodotta dalla Nielsen dal titolo “Italiani e qualità alimentare”, la qualità del cibo è al terzo posto tra i fattori che incidono sulla qualità della propria vita. 

IL PRODUTTORE DEV’ESSERE CERTIFICATO – La qualità è generalmente associata alla genuinità di un prodotto. Non importa, o importa molto poco, se questo è costoso. L’importante è che l’alimento sia sicuro e che sia di qualità. Non importa che sia particolarmente buono o che abbia un gusto particolare. Dev’essere sano. Secondo la ricerca poi per il 65 per cento degli intervistati la qualità è associata al termine genuinità, seguito da sicurezza, controllo, garanzia ed italiano. L’importante non è sapere quanto costa, l’abito non fa il monaco, ma sapere da dove viene e se il produttore è certificato, sicuro, verificato. Questi valori sono addirittura ancora più importanti della pubblicità. Secondo la ricerca infatti il consumatore non si lascia abbindolare dall’immagine, dal colore, dal gusto, ma si muove solo quando sente la qualità.

LE PAROLE DELL’AZIENDA NON BASTANO – Qualche giorno fa avevamo parlato del rischio di chiusura dell’Inran,  l’Istituto Nazionale per la Ricerca sull’Alimentazione e la Nutrizione, il quale si occupa della ricerca sugli alimenti. Allora parlammo del fatto che il controllo sui cibi non poteva essere lasciato in mano alle aziende alimentari e che lo Stato doveva fare il suo dovere per controllare l’alimentazione dei cittadini. Come dimostrato dalla ricerca Nielsen il pericolo non verrebbe comunque corso in quanto la gente non si fida del messaggio delle aziende. Ci vuole un ente esterno che certifichi, controlli e stabilsca se la qualità dei prodotti proposti da un’azienda come in questo caso è McDonalds siano appetibili per davvero.

LA CERTIFICAZIONE QUALIVITA – Per questo motivo la multinazionale della grande “M” ha ottenuto, prima catena di ristorazione italiana, lo standard Qualivita, ovvero un sistema studiato per il canale Ho.Re.Ca, Hotellerie-Restaurant-Café, riservato agli attori dell’industria alberghiera e della ristorazione. Il riconoscimento viene dato da un ente terzo, in questo caso Csqa certificazioni, il quale analizza e controlla la tracciabilità dei prodotti -secondo McDonald’s in tre ore è possibile da un hamburger risalire alla mucca da cui proviene-, l’impegno in materia d’impiego di prodotti di qualità italiani, le caratteristiche degli ingredienti, l’elenco dei fornitori di prodotti alimentari e di servizi, gli impegni e azioni in materia d’igiene e sicurezza nei ristoranti, la comunicazione e la pubblicità.

 

 

VITTORIA DEI CONSUMATORI – Possiamo definirla una vittoria dei consumatori? Probabilmente si. Lo ha ammesso anche la stessa McDonald’s: “puntavamo al gusto, e sbagliavamo”. Puntare al gusto significa dimenticare la salute, l’importanza dei prodotti “dop”, il valore dell’italianità in cucina, significa cambiare la percezione dei clienti verso un qualcosa di spurio, non a caso fino a cinque-sei anni fa McDonald’s era la patria dei quindicenni in uscita libera dalla scuola. Un marchio indelebile, tanto che ancora oggi resiste l’assioma hamburger-junk food. Per riguadagnare credibilità e soprattutto mercato è stato necessario virare verso la clientela, avvicinandola seguendo i suoi gusti, le sue idee, facendole sapere cosa si sta mangiando in termini di provenienza e di valore calorico, dati presenti su ogni confezione. In sostanza il mondo può cambiare ma questo movimento deve venire dalla base. Se tutti chiedessimo in qualsiasi settore della nostra vita genuinità e qualità questa ci verrebbe proposta perché sarà il consumatore a modificare il mercato, e non viceversa.