Cade un tabù: il Parlamento europeo riconosce cinque paradisi fiscali nella UE

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Si tratta di Cipro, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi e Irlanda: così il dumping fiscale penalizza anche noi

Quando pensiamo ai paradisi fiscali ci vengono spesso in mente esotiche e tropicali, scenari da sogno isolati dal resto del mondo. Tutto vero, ma questo affresco rischia di essere solo una parte della verità. Dopo i numerosi rapporti sviscerati da varie ONG (i report di Oxfam sono quelli che fanno più discutere), anche il Parlamento Europeo ha deciso di riconoscere l’esistenza di alcuni paradisi fiscali all’interno dell’Unione Europea. Gli euro-deputati hanno così puntato i fari essenzialmente su cinque Paesi, ovvero Cipro, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi e Irlanda. Il Parlamento ha determinato che la quantità di investimenti diretti verso questi paesi non può essere spiegata con le attività economiche che si svolgono al loro interno, quindi i cinque adottano, molto probabilmente, una pianificazione fiscale aggressiva. Tradotto in soldoni: molte multinazionali stabiliscono la loro sede legale in questi paesi per usufruire di accordi e tassazioni agevolate, anche se gli utili vengono spesso prodotti altrove. Un espediente legale che deprime fortemente la fiscalità generale e il principio di progressività delle imposte nel resto della UE (Italia compresa), ma che attira molti capitali e che è molto utilizzato dalle aziende digitali, ma non solo. Si pensi all’Olanda dove aziende importanti come Ikea, Nike, Google, Uber o Ebay, hanno deciso di spostare il loro “Headquarter” europei. O si pensi, a tal riguardo, alla storica invece la multa che la Commissione aveva commutato nel 2016 alla Apple per aver usufruito di un regime fiscale agevolato in Irlanda. La multinazionale era ricorsa contro la decisione UE insieme al Paese che aveva adottato il regime agevolato nei suoi confronti, ovvero la stessa Irlanda. Una vicenda che sa di paradosso, ma solo in apparenza.



Concorrenza sleale: tra i talloni d’Achille della UE

La concorrenza fiscale sleale in Europa è uno dei grandi talloni d’Achille dell’Unione, pratica condannata a gran voce dal Parlamento che, si legge testualmente: “deplora il fatto che alcuni Stati membri confischino la base imponibile di altri Stati membri attirando utili generati altrove, consentendo così alle imprese di ridurre artificialmente la propria base imponibile; evidenzia che questa pratica non solo danneggia il principio di solidarietà dell’UE, ma conduce anche a una redistribuzione della ricchezza nei confronti delle imprese multinazionali e dei loro azionisti a spese dei cittadini dell’UE”. Ma quanto ci costano ogni anno i paradisi fiscali?

Una perdita da miliardi di euro di imposte

Considerate le cifre di cui discutiamo ogni anno per manovre finanziare e manovrine di aggiustamento e moltiplicatele enormemente. Secondo il Fondo Monetario Internazionale le perdite dovute all’erosione degli imponibili fiscali mondiali e il traferimento di fondi in paradisi fiscali ammontano a 600 miliardi di dollari l’anno, 400 se ci limitiamo solo ai paesi OCSE.  E i numeri sono altissimi anche se parliamo dello spostamento di capitali nei paradisi fiscali presenti nella stessa UE: nel 2015 l’ampiezza delle perdite annuali derivanti da pianificazioni fiscali aggressive ammontavano tra i 50 e i 70 miliardi di euro, e addirittura tra i 160 e i 190 se si aggiungono anche gli accordi fiscali personalizzati con le grandi imprese multinazionali e inefficienze della riscossione. Cifre da capogiro che potrebbero alleviare (e di molto) problematiche, ad esempio, relative al Welfare o al cambio climatico. Ma se in Italia, la tassazione d’impresa rimane tuttora un problema, il Parlamento europeo rileva che le aliquote minime delle società sono passate da una media del 32% nel 2000 a una del 21,9% nel 2018. E la tassazione agevola enormemente le imprese digitali. Mentre i settori tradizionali sono sottoposti a una pressione fiscale del 23% (media UE) quelle digitali sono sottoposte ad appena il 9%. Percentuali forse utili ad attirare gli investimenti ed evitare la “migrazione” verso regimi fiscali più agevolati, ma che sanno di vero e proprio paradosso in un’Europa da anni schiacciata da manovre di austerità e dalla preoccupante ascesa dei populisti.