Benetton e le camicie cucite nel palazzo crollato in Bangladesh

Subito dopo il tragico crollo del Rana Plaza, in Bangladesh, Benetton aveva escluso qualsiasi collaborazione con i marchi che lavoravano nel palazzo, difendendosi dalle accuse. Ma dopo lo scoop di Afp, con il ritrovamento di alcuni vestiti con il marchio dell’azienda italiana e un ordine d’acquisto, c’era stata una prima ammissione. A confermare alcuni legami è stato poi l’amministratore delegato dell’azienda, Biagio Chiarolanza, che in un’intervista con l’Huffington Post, ha svelato come la sua azienda aveva acquistato “piccole quantità di camicie” da un produttore che operava all’interno del palazzo crollato. Quello che, alla periferia di Dacca, è costato la vita a 912 persone, con il bilancio delle vittime che continua a salire. Nell’edificio di nove piani erano ospitati negozi e diversi laboratori tessili.

Benetton-Bangladesh

BENETTON, RANA PLAZA E LE MERCI ACQUISTATE – L’ad di Benetton ha spiegato come Benetton avesse comprato le camicie da una società chiamata New Wave Style, che operava all’interno di una delle diverse fabbriche presenti al Rana Plaza. Ha precisato come, al momento del disastro, la società non fosse in rapporti con l’azienda di moda italiana: “E’ stato uno dei nostri fornitori diretti indiani ad aver subappaltato due ordini”, ha chiarito Chiarolanza. Sull’Huffington Post si spiega come uno dei fornitori di Benetton avesse avuto alcuni problemi nell’eseguire alcuni ordini, tanto da dover affidare  una parte del proprio lavoro ad altri fornitori del Bangladesh, compreso New Wave.  Come ha chiarito Chiarolenza l’azienda italiana ha però deciso di interrompere i rapporti con New Wave un mese prima del crollo mortale, “a causa dell’incapacità del fabbricante di soddisfare le qualità rigorosa e gli standard di efficienza”, come ha spiegato ad Hp lo stesso Chiarolanza. Nonostante l’incidente, Benetton ha intenzioni di continuare ad utilizzare le fabbriche del paese asiatico per fabbricare i suoi prodotti: “Uscire dal paese non è la soluzione giusta, Benetton e altri marchi internazionali possono aiutare questi paese a migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini”. Ma ha aggiunto come sia necessario l’aumento delle condizioni di sicurezza sul lavoro.

BENETTON: “POCHI ORDINI” – Chiarolanza ha ribadito come gli acquisti di Benetton da New Wave fossero esigui: “In totale, circa 200 mila camicie, tra il mese di dicembre 2012 e gennaio 2013”. Vestiti fabbricati all’interno del Rana Plaza, spediti al fornitore diretto in India e poi distribuiti attraverso Benetton “su tutta la rete di distribuzione”. L’ad ha cercato di chiarire la posizione e il coinvolgimento del gruppo, dopo che non poche erano state le critiche nei confronti dell’azienda italiana, accusata – come ricorda Hp – di fare profitti utilizzando manodopera a basso costo nei paesi sottosviluppati: “Per una società che riporta come slogan “United Colors of Benetton” – un riferimento al multiculturalismo – l’associazione del proprio marchio con i laboratori clandestini e poco sicuri risulta un particolare molto scomodo”, spiega l’Huffington Post. Rispetto a chi chiedeva la ragione delle prime dichiarazioni, che negavano i rapporti di Benetton con i fornitori presenti nel palazzo, l’azienda si è difesa, incolpando la confusione generata dalla complessa catena di fornitura. La società opera in 120 paesi in tutto il mondo e lavora con 700 produttori e fornitori, che spesso subappaltano il lavoro quando necessario. “C’è voluto diverso tempo per fare i nostri controlli”, ha sostenuto l’azienda. Benetton ha poi aggiunto di non aver condotto controllo sociali sulla New Wave – “in sostanza, uno sguardo più approfondito sulle condizioni di lavoro del produttore e sulla sicurezza sul lavoro” – soltanto perché aveva lavorato con il fornitore per un periodo molto breve di tempo.  Tra il 2 e il 4 per cento dei prodotti griffati Benetton sono realizzati nelle fabbriche del Bangladesh, secondo quanto sostiene la società. Benetton gestisce direttamente la metà di questa produzione, mentre si basa su fornitori esterni – soprattutto cinesi – per il resto.

LE COLPE DEI GRANDI MARCHI DELLA MODA – Il disastro del Rana Plaza ha scatenato le critiche dell’opinione pubblica nei confronti di diverse multinazionali e aziende della moda. Accusate di sfruttare condizioni favorevoli nei paesi poveri per abbassare i costi della produzione, senza fare troppa attenzione alla dignità del lavoro e ai diritti dei lavoratori stessi. Grazie alla tassazione favorevole e all’omertà di governi compiacenti, oltre ai bassi costi di produzione, non poche aziende si garantiscono introiti milionari. Il crollo della Rana Plaza è soltanto l’ultimo di una lunga lista di incidenti sul lavoro che hanno causato la morte di oltre mille lavoratori nel paese dal 2005. Una situazione, quella delle scarse condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro, che si affianca a salari bassissimi, inferiori ai 28 euro al mese. “I più bassi del mondo”, come aveva denunciato anche Human Rights Watch. Nel Rana Plaza venivano prodotti vestiti per diversi marchi occidentali: da Mango all’inglese Primark, fino all’italiana Yes-Zee, come aveva spiegato anche il Corriere della Sera. Benetton non vuole mollare il Bangladesh, spiegando di voler così aiutare lo sviluppo del paese. Eppure, spiega HP, non pochi attivisti e ong locali rimangono scettici riguardo l’impegno dell’azineda per aiutare i lavoratori del Bangladesh. Scott Nova, direttore esecutivo del Worker Rights Consortium, un’organizzazione indipendente che monitora i diritti dei lavoratori, ha incalzato la società italiana, chiedendo investimenti per migliorare le condizioni dei luoghi di lavoro. Se per Benetton, poi, “un salario, anche se basso, resta una condizione migliore rispetto a chi non ha nessuno stipendio”, per gli attivisti serve maggiore rispetto per la dignità dei tanti lavoratori del paese: “Le donne non possono sostenere le loro famiglie su 40 dollari al mese”, ha concluso Scott Nova.

Share this article