Indymedia se n’è andata in silenzio

15/04/2013 di Mazzetta

GLI ULTIMI FUOCHI – Se l’undici settembre e l’esplodere della War On Terror riuscirono a coprire con il fragore della guerra le istanze altermondiste, non così fu per l’opposizione alla guerra in Iraq, l’ultima impresa collettiva “dal basso” attorno alla quale si mobilitarono milioni di persone che si trovavano grazie a Indymedia e che a lungo, dopo lo scoppio della guerra, trovavano su Indymedia lo spazio per condividere le informazioni più o meno censurate e contrastare la propaganda bellica, ma con il dilagare incontrastato del conflitto anche il movimento No War era destinato al tramonto e con il perdurare del conflitto si spense anche Indymedia, priva ormai di quella comunità che un tempo forniva le competenze e il lavoro necessarie.

PROTETTI E NO – Si spense al punto che al sorgere del movimento di Occupy è stata sostanzialmente ignorata dagli attivisti statunitensi come più o meno ovunque, decisamente più attratti da Twitter e Facebook. Così è stato per iraniani e arabi quando hanno pensato di volgersi contro i loro governi. La principale differenza tra i due tipi di strumenti è che mentre indymedia protegge chi pubblica dalla curiosità del potere, Facebook, Twitter e altri strumenti più o meno simili e “corporate” sono pronti a sottomettersi a quasi qualsiasi richiesta sia vidimata da un tribunale. Anche se spesso non ce n’è bisogno, perché quando milioni di persone si ribellano, se ne trovano fin troppe che non si rendono conto dei rischi reali che pone il lasciare un messaggio in rete e che magari finiscono nelle mani dei torturatori di qualche regime, se non al patibolo.

FUNZIONA – Nonostante i server di Indymedia siano stati sequestrati in diverse occasioni, il sistema ha dimostrato di funzionare e nessuna autorità ha mai tracciato gli utenti a ritroso dai server di Indymedia, che si è dimostrata capace di resistere alle pressioni autoritarie di numerosissimi governi negli anni. Per capire di che genere di pressioni si tratti basta pensare alla persecuzione che si è abbattuta su Wikileaks, che offre similmente la possibilità di pubblicare materiale molto sensibile con la massima protezione delle fonti, ma che diversamente da Indymedia non ha un modello leaderless. Per questo nel caso di Wikileaks s’assiste all’accanimento contro la figura di Assange, mentre è su un altro piano la vicenda di Bradley Manning, che si sarebbe compromesso ugualmente se; dopo aver diffuso i cable attraverso un nodo d’Indymedia; fosse andato a raccontarlo in giro come ha fatto.

ATENE ANCORA FRIZZANTE – Nonostante lo spegnersi globale del network, e a dimostrazione di come lo strumento sia adatto e utile al conflitto, una notevole eccezione è rappresentata dal nodo di Atene, negli ultimi anni immerso nelle tumultuose vicende elleniche e proprio negli ultimi giorni colpito dalla censura governativa, che tollera Alba Dorata e la sua propaganda nazifascista, ma che evidentemente non riesce a reggere il fastidio per quelle voci che da Indymedia Atene e da una radio collegata allo stesso collettivo chiamano alla rivolta contro una politica incapace persino di sbarrare il passo al dilagare dello squadrismo di destra.

SERVE ANCORA – Il trascorrere degli anni continua quindi a confermare il bisogno di canali di pubblicazione che siano allo stesso tempo protetti e accessibili al più ampio numero di contributi, perché è evidente che anche i governi democratici, non meno di quelli autoritari, siano particolarmente aggressivi contro chi diffonde notizie e documenti sgraditi. Anche nei paesi che in teoria garantiscono la libertà d’espressione e cantano le lodi del giornalismo come cane da guardia della democrazia, c’è ancora e sempre chi rischia grosso diffondendo informazioni che danno fastidio. L’esperienza d’Indymedia resta quindi un patrimonio prezioso d’indicazioni e di riflessioni su una maniera diversa di costruire un media partecipato e al tempo stesso capace di proteggere chi lo alimenti dalle ritorsioni dei poteri più o meno forti e più o meno costituiti.

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