La crisi vista da un falegname

13/01/2010 di Carlo Cipiciani

L’economia ricomincia a crescere, ma la produzione industriale è diminuita del 20% e l’occupazione calerà ancora per tutto il 2010. Invece delle solite considerazioni da economisti, ascoltiamo la voce di un operaio, terza elementare, della Merloni di Nocera Umbra

E’ un po’ che devo aggiustare le cerniere dell’armadio. Un amico mi consiglia di rivolgermi a Giulio F.. Qualche giorno fa è venuto a casa, la faccia antica da contadino in trasferta in città. Mentre inizia a lavorare gli porto un caffè. E mentre lavora, parla, parla, parla.

LA MERLONI CHE NON C’E’ PIU’ – Giulio è un operaio in cassa integrazione. Lavorava alla Antonio Merloni, 1000 e passa dipendenti tra Nocera Umbra e Gualdo Tadino. Un’azienda che qualche anno fa sembrava invincibile e adesso è in crisi nerissima, messa definitivamente in ginocchio dalla crisi economica. “Quando sono entrato ragazzino alla Merloni per fare un frigorifero eravamo in dieci e ci mettevamo 8 ore. Gli ultimi tempi in dieci facevamo 5 frigoriferi in 4 ore. Ma quando tutti hanno il frigorifero, che cavolo facciamo, mi chiedevo?” Giulio è un falegname all’antica, ha solo la terza elementare in tasca. Io sto lì a scrivere e lui parla. “Merloni era un imprenditore vecchio stampo, di quelli che arrivano in fabbrica per primi ed escono per ultimi. Un uomo senza fronzoli. Il padrone, certo. Ma ti rispettava e lo rispettavi. Mentre tutti gli altri se ne andavano in giro a speculare in borsa, a comprarsi barche lui se ne stava lì, nella fabbrica arroccata tra le montagne dell’appennino”. Non ho il cuore di dire a Giulio, che una fabbrica in un posto in culo al mondo oggi è antieconomica.

NESSUNO CI VUOLE – Ma lo sa già: “Certo, così non reggi la concorrenza di chi sta già attaccato al mare, o alle ferrovie, o alle autostrade. Ma l’Italia è piena di gente che vive in mezzo ai paesi, che facciamo: ci trasferiamo tutti e 60 milioni in Brianza a fare mobili, scarpe, pentole?”. No Giulio, vedi, le cose sono un po’ più complicate. Ma Giulio è un fiume in piena. “E allora quando siamo andati in crisi la fabbrica nostra non interessa a nessuno. Se non sei nato da quelle parti vedi solo che è un posto scomodo, irraggiungibile. Mica pensi che quella fabbrica regge una comunità, che dietro ci sono io, il mio amico Giovanni, e mille famiglie, più tutto quello che gira intorno. Non te ne frega niente”. Certo, Giulio. Il radicamento dell’imprenditore locale non è quello delle multinazionali dei manager senza patria, se non i soldi. Ma questo è il capitalismo, bellezza. “Un giorno sono venuti quelli dell’IKEA. Bel posto hanno detto. Bella fabbrica, brave maestranze. Ma in un posto così non ci veniamo neanche morti” E già Giulio, è così. “E’ che adesso vanno tutti all’estero a fare i mobili, i frigoriferi, le scarpe. Tutti: i marchigiani, i veneti, i lombardi, i nostri. Sa quanta gente se n’è andata a fabbricare in Romania, o direttamente laggiù in Cina?

CONSUMATORI SENZA STIPENDIO – “Io lo dicevo a quelli che qualche anno fa sbuffavano con la puzza sotto il naso: i frigoriferi come li facciamo noi non li farà mai nessuno. I cinesi non capiscono niente, sono solo facce gialle. Ma se laggiù hanno una civiltà di mille anni, che gli ci vuole a capire come facciamo un frigorifero noi?” Giulio hai ragione. In effetti non era difficile capirlo, già qualche anno fa. Ma la colpa è l’assenza di una politica industriale degna di questo nome. Anche questo Giulio lo sa: “Intendiamoci: io non ce l’ho con i cinesi. Quelli che conosco sono brava gente. Educati, lavoratori, laboriosi. Un po’ chiusi, come noi montanari. Ce l’ho con chi non ha fatto niente per evitare che  questo paese svanisca. I politici, tutti, che pensano solo ai fatti loro” Giulio continua a lavorare alle cerniere, con i suoi attrezzi. “Adesso dicono che dove c’era la fabbrica, se non viene nessuno a rilevarla, ci faranno un bel centro commerciale”. E’ vero Giulio, è successo in molti posti. Molti la chiamano riqualificazione delle aree industriali dismesse, altri la chiamano speculazione edilizia. “Però c’è una cosa che non capisco. Ma se tutti vanno a produrre in Cina perché è più conveniente, e al posto delle fabbriche aprono i centri commerciali, ipermercati e via dicendo, che diventiamo noi? Un paese di consumatori che non produce più niente? E se non produciamo più niente perché la gente non ha più un lavoro, con che le compra le cose che sono nei centri commerciali?

UN PAESE CHE IMPLODE SU SE STESSO – Difficile spiegare a Giulio che esiste la teoria del commercio internazionale, che ci sono le “specializzazioni” dei territori, delle nazioni, dei continenti. Che noi faremo altre cose, per comprarci i frigoriferi. “Sarà…Adesso fanno tutto in Cina, spendono meno ma vendono praticamente come se producessero in Italia…e quello che guadagnano in più? Non è mica che lo investono in Italia: ci fanno i conti all’estero. E poi gli fanno lo scudo”. Touché, Giulio. Incasso in silenzio, anche perché tu non hai finito di parlare “Intendiamoci, io non mi lamento. So fare il falegname, e non lo sa fare più nessuno. Con lavoretti come questo tirerò avanti. I soldi mi servono, ho due figlie da far studiare, anche se mi chiedo che razza di futuro ci sarà per loro. Qui chiuderà tutto. E questo paese diventerà una scatola vuota” Giulio, non essere semplicistico. “Dice: le puoi mandare a imparare un mestiere. Quale? La parrucchiera? E chi viene a fare i capelli, se non guadagna uno stipendio?” Non arrabbiarti, con quella tua faccia antica da contadino in trasferta? La globalizzazione – lo dicono tutti – è un buon affare perché nel lungo periodo le cose si aggiustano. “Certo, adesso per me e i  miei compagni di lavoro c’è la cassa integrazione. Ma è un sussidio dello Stato, mica ce l’avrò per sempre, no?” Giulio, ma non la senti la televisione? Promettono tutti che prima o poi l’economia italiana ripartirà. “Io non ci credo. Merloni e tanti altri vanno in malora. E gli operai servono solo come un bancomat: polli da allevamento, buoni solo per essere spennati.” La voce si è fatta amara, mentre Giulio ha finito il suo lavoro e raccoglie i suoi attrezzi. “Insomma io la vedo così: a me lo Stato dà un sussidio, per comprare le cose che adesso fanno in Cina e che una volta si facevano da noi e con le quali ci guadagnavamo uno stipendio. Dice: però adesso costano meno. Sarà anche vero, ma dove sta il vantaggio? E per quanto tempo potrà durare?

Ha collaborato Michela Furiani
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