Un caso risolto due volte

Primi anni ’90: il Tevere restituisce alla Città Eterna un cadavere e due assassini. Anche se, alla fine, uno era di troppo.

Il 7 agosto 1993 Roma si sveglia macchiata di sangue. Ancora una volta. Pochi anni prima c’era stata via Poma. Poi il delitto dell’Olgiata. Adesso un nuovo fattaccio, come direbbe Cerami. Sempre d’estate e sempre con una bella donna per protagonista: Cinzia Bruno, 30 anni, impiegata al Ministero dell’Interno. Quella maledetta mattina la trovano sul greto del Tevere. L’hanno chiusa in un sacco di iuta. Uno di quelli usati per consegnare la posta, e infatti reca proprio questa insegna sopra. Aprendo il sacco hanno trovato Cinzia con al collo un sacchetto di plastica, con sopra la scritta di uno dei tanti supermercati della Capitale. L’hanno colpita alla testa, brutalmente, forse con una mazza, e l’hanno accoltellata più volte, l’hanno caricata in macchina e poi gettata via come immondizia verso Monterotondo, prima che il Tevere entri nella Città Santa. A dispetto del tempo, non può dirsi che per Roma quella sia una buona mattina.

I CRONISTRI PARTONO –  In breve la notizia si diffonde nelle redazioni e già si immaginano montagne di pagine bianche da riempire d’un tratto diventare nere. Se fosse come gli altri due delitti qui c’è da scrivere fino a tutto agosto. Altro che tappabuchi da cercare: dal Tevere è arrivato il giallo d’estate. Di tutt’altro avviso sono i carabinieri: un altro caso del genere è da evitare a tutti i costi. Bastano già due delitti di questo tipo rimasti insoluti. Sarebbe il caso di darci un taglio. Per questo come hanno scoperto il corpo si sono mezzi subito al lavoro. Celere non è solo il nome di un reparto dei “cugini”, adesso celeri lo sono tutti. In poche ore nella caserma sfilano tutti gli amici e i parenti di Cinzia. Quando dicono che un delitto si risolve nella maggior parte dei casi nelle prime 48 ore è vero. Adesso ogni minuto che passa è prezioso. La pista va imboccata subito o addio a ogni speranza. Nessuno di quelli che potrebbe sapere cosa è successo a Cinzia deve sfuggire. Di certo c’è che è uscita di casa alle 8, ha chiamato il lavoro per dire che non andava alle 8,15. Di lei e della sua 126 azzurra da quell’ora in poi si perde ogni traccia.

SOLUZIONE UNO – Appena due giorni dopo, mentre i parenti danno l’estremo saluto a Cinzia, i carabinieri arrestano Massimo Pisano e Silvana Agresta: il marito e l’amante. Il caso è risolto: Cinzia li ha trovati insieme e loro hanno deciso di farla fuori. A mettere i carabinieri sulla strada giusta sarebbero stati i suoi colleghi: sospettava del tradimento del marito e aveva deciso di prendere di petto la situazione. Anche se messi alle strette, nessuno dei due confessa. Finisce in manette anche Sabatino Gigante, con l’accusa di aver trasportato il corpo di Cinzia sul Tevere su loro richiesta. Massimo e Silvana vengono soprannominati “gli amanti diabolici del Viminale”, visto che anche loro lavorano lì. E così la storia finisce. Vengono condannati in primo grado, poi in Appello e, infine, in Cassazione. Punto.

BUONA LA SECONDA –  Pochi, pochissimi sono i casi che vengono riaperti. Il caso di Cinzia è uno di questi. C’è qualcosa che non quadra. Ai due avvocati di Massimo, Stefano Giorgio e Barbara Auleta, il racconto di Silvana non è mai andato a genio. E poi c’erano le prove: nessuna contro Massimo. Indizi, sì, ma prove niente. E allora hanno cominciato a indagare. A casa di Silvana c’erano macchie di sangue, ma non si poteva dimostrare che anche Massimo fosse lì. E poi c’erano gli orari: alle 11,30 era al lavoro e alle 12 lei veniva uccisa. Troppa strada da fare in mezz’ora, considerando anche il traffico della Capitale. Allora la scena cambia. Ad uccidere Cinzia è stata solo Silvana, l’amante gelosa. E Massimo? Massimo niente. Lo sancisce una corte il 19 febbraio del 2001, dopo sette anni e mezzo di carcere. Lui, con quel fattaccio non c’entrava nulla.

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