Direzione Pd, l’imbarazzo e i tormenti della minoranza dem (e la paura di rompere con Renzi)

11/10/2016 di Alberto Sofia

Il tormento della Ditta, gli imbarazzi dei bersaniani, la paura di rompere dopo l’apertura di Matteo Renzi alle modifiche dell’Italicum, ma soltanto dopo il referendum costituzionale. Al Nazareno, teatro di una Direzione Pd che rischiava di trasformarsi nell’antipasto di una scissione, la minoranza dem, ancora una volta, recita il ruolo della “protagonista” mancata. Perché se le premesse della vigilia erano quelle di un vertice da scontro finale tra Matteo Renzi e la sinistra del partito, dopo la “corsa al No” sui quotidiani di Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza sul voto decisivo della legislatura, al parlamentino Pd quel clima evocato da apocalisse in salsa democratica resta lontano. Resa dei conti rinviata, semmai ci sarà.


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Certo, la frattura interna al Pd non si ricompone, con la minoranza che diserta il voto sulla relazione del segretario. Né sembra vicino un accordo interno prima del passaggio cruciale del 4 dicembre, che eviti il rischio di una lacerazione alle urne. Di fatto, un Congresso del partito anticipato. Ma le parole dei ribelli, anche quando certificano la distanza ancora incolmabile con Renzi, restano quasi misurate, tutt’altro che da ultimatum. Niente chiusure definitive. Non sarà forse una retromarcia, o almeno lo negano gli stessi bersaniani, che ai microfoni dei cronisti ribadiscono il “No” bollando come «insufficienti» le “aperture” del segretario. Non sarà, forse, una frenata. Ma ha le sembianze di un gioco tattico infinito. Una partita a scacchi, senza il coraggio, né la capacità di sapersi schierare fino in fondo.

ROBERTO SPERANZA: “CONFERMO IL NO, CON L’ITALICUM”. MA LA MINORANZA RINVIA LO SCONTRO FINALE

Sono passate le 21 quando Roberto Speranza, il leader in pectore della minoranza dem legata all’ex segretario Bersani, lascia la sede del Partito democratico. Volto scuro, poca voglia di parlare, passa da un’uscita secondaria e preferirebbe evitare le interviste. Ma le telecamere lo assediano e lo incalzano, dopo un intervento in Direzione Pd che non pochi si aspettavano ben più incisivo, in cui l’atteso “No” al referendum non viene mai pronunciato. Ma l’ex capogruppo all’uscita si difende, nega di esser stato poco chiaro. E ribadisce che la sua posizione non cambia, al di là di quanto promesso dal premier: «Ho fatto decine di interviste, l’ho già detto: con l’Italicum voto no. Non bastano le parole di Renzi, né basta la commissione. Il Pd doveva fare una proposta concreta. Nessuno vuole mettersi sull’Aventino, ma non mi sembra che ci sia la reale volontà di cambiare l’Italicum».

Non si fida di Matteo Renzi, Speranza. Quel premier che in Direzione non l’ha mai citato, ma di certo non gli ha risparmiato attacchi e frecciate. Così serve un passo indietro per raccontare un vertice dal clima pesante, tra le ombre di una implosione insanabile, in un partito dove convivono due anime che ormai poco o nulla hanno a che fare tra loro. Inconciliabili. Lo stesso Renzi lancia alla minoranza quasi un messaggio di benservito: «Per tenere unito il partito non si può bloccare il Paese», incalza. Non sembra temere una scissione, il premier. Anzi, sembra quasi spingere la minoranza alla porta, forse convinto che tanto non ne avrebbe il coraggio. E forse non sbaglia, considerata la fatica e la tattica degli interventi in Direzione. Non è un caso che lo stesso Renzi provochi Speranza e Bersani, spingendosi fino a  rivendicare di voler togliere quello che chiama con sprezzo “l’alibi della minoranza”.

Chiaro che Renzi intenda mostrare la scelta della sinistra interna sul referendum come qualcosa di già deciso da mesi, al di là del “pretesto” dell’Italicum. Ormai convinto che il solo scopo dei bersaniani sia quello di affondare la sua leadership facendo vincere il No. «Ci è stato detto che dovevamo aprire sulla legge elettorale. Noi abbiamo aperto e loro ci chiedono di dire scusa per aver messo la fiducia. Siamo alle allucinazioni“, è l’attacco del segretario. Poi, il colpo di teatro, con la proposta di istituire una commissione interna. Quelle stesse commissioni che il premier Renzi diceva in passato di non sopportare, perché “vecchia politica”, buone soltanto per guadagnare tempo. Ma che ora tornano utili per “stanare” la minoranza. Per questo nomina una delegazione dem, presieduta dal vicesegretario Lorenzo Guerini, con i due capigruppo Rosato e Luigi Zanda, il presidente Matteo Orfini e uno o due esponenti della sinistra interna per discutere delle modifiche. La minoranza, spiega lo stesso Speranza al termine, parteciperà. Ma senza alcuna speranza o quasi che si trovi una soluzione.

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DIREZIONE PD MINORANZA PD DIVISA. IL NODO (DECISIVO) DEI TEMPI

Il motivo? Sono i tempi che contano. Perché, sebbene nella replica Renzi abbia aperto affinché la commissione si metta fin da subito al lavoro, nel merito si entrerà soltanto «a partire dalle settimane successive al referendum e prima della fine dell’anno». Ovvero, dopo quel referendum che cambierà tutto. Perché, spiegano fonti di minoranza, se vincerà il No gli scenari cambieranno, mentre se vincerà il “Sì” Renzi potrebbe limitarsi a «poche modifiche: quelle che gli bastano per accontentare Alfano e Verdini, con il premio alla coalizione. Le stesse che chiede, non a caso, pure Franceschini». Poco cambia che Renzi abbia spiegato di essere pronto a discutere di tutto: dai metodi di selezione dei parlamentari, al passaggio dello stesso “premio alla lista a quello di coalizione“, pure di quel ballottaggio che ha sempre difeso. Tutti punti richiesti dalla minoranza, che Renzi riprende non a caso “per togliere l’alibi“. Con una premessa, da parte dello stesso premier: «Il punto resta trovare numeri alternativi fuori dal Pd per cambiare la legge». Tradotto, questa volta non sono in agenda forzature.

Ma non solo. Renzi apre al confronto anche sulla proposta del bersaniano Federico Fornaro per l’elezione dei senatori. Quella che dovrebbe recepire l’accordo raggiunto in casa dem al Senato, ai tempi dell’ultimo voto al Ddl Boschi, in modo che i futuri eletti di Palazzo Madama vengano scelti rispettando le indicazioni degli elettori. Sulla carta lavorare su una sintesi sembrerebbe possibile, ma è chiaro che la diffidenza – reciproca – crei ormai muri al Nazareno quasi insormontabili. E soprattutto che i tempi non siano irrilevanti.

«Soltanto un bluff, se Renzi avesse voluto ricucire il partito sarebbe arrivato in Direzione con una proposta concreta. Invece vuole solo dire: è colpa della minoranza. Vuole scaricare su di noi tutte le responsabilità della rottura», rilanciano dalla sinistra del partito. Perché, insistono, sull’Italicum Renzi mise la fiducia, ora invece cerca i numeri in Parlamento. In un’Aula dove il M5S non vuole sentirne parlare di discutere, Forza Italia non intende trattare prima del voto e gli interessi di Ap e Ala restano divergenti con quelli della minoranza. Come a voler dire, «io ci ho provato, ma la colpa è degli altri», accusano ancora dalla minoranza, attaccando Renzi. «Avevamo chiesto un impegno del Pd e del governo sulla legge elettorale. E la risposta è una commissioncina che sposta ogni decisione concreta dopo il referendum? Ma andiamo...”, contesta pure Nico Stumpo. Tradotto, la sinistra Pd non ci sta, insiste sulla sua linea, conferma il “No”. Ma non si assume ancora l’onere di comunicare la rottura in via definitiva.

LE DIMISSIONI EVOCATE DA CUPERLO, IL “NON BASTA” DI SPERANZA. MA NIENTE ROTTURA

Eppure, sembrava che il giorno dell’ufficialità del “No” fosse arrivato, dopo l’intervista con cui Bersani si era associato al fronte dei contrari, accusando pure Renzi di averlo trattato come un “rottame”. L’ex segretario preferisce non intervenire in Direzione. Resta in disparte, lasciando campo al suo “delfino”. Quello stesso Roberto Speranza che, almeno nelle intenzioni della vigilia, doveva comunicare lo strappo: «Sarà Roberto (Speranza, ndr) a spiegare le nostre ragioni, la strada è tracciata, credo non ci sia alternativa nell’esprimere il nostro No», aveva anticipato non a caso l’altro bersaniano Davide Zoggia prima della Direzione. Poi, qualcosa sembra essere cambiato in corsa. Tanto che l’ex capogruppo dem è sembrato quasi temporeggiare, anche nell’iscriversi a parlare. Non è un caso che, dopo l’intervento di Renzi, Matteo Orfini abbia fatto quasi fatica nel capire a chi dover dare la parola, con un solo iscritto a parlare.


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Si sono guardati, si sono parlati a lungo “sottovoce”, l’ex segretario Bersani e il suo delfino Speranza. Chissà, forse in parte spiazzati dalla relazione d’apertura del premier. Forse anche dall’intervento di Gianni Cuperlo, l’altro leader della minoranza che, al contrario dei bersaniani, non si era ancora sbilanciato sul referendum, in attesa di un segnale di Renzi in Direzione. Tra bersaniani e cuperliani la distanza c’è, si avverte anche nel corso della Direzione Pd. L’appello all’unità dell’ex presidente del partito è autentico, Cuperlo mostra la sofferenza e i segni di un partito lacerato. Tanto da arrivare fino a mettere sul piatto le sue dimissioni da deputato, nel caso fosse costretto a votare “No“, senza un accordo sull’Italicum prima del voto. «Una scelta personale, che va rispettata», spiegano Speranza e Zoggia all’uscita, che però non si accodano. L’impressione è che Renzi possa ancora provare a recuperare Cuperlo e la sua Sinistra dem alla causa del “Sì”,  ma non alle attuali condizioni. Perché il deputato è stato chiaro: serve che sia il Pd a farsi subito carico di cambiare l’Italicum. E non dopo le urne. «È evidente che approvare una nuova legge elettorale prima del 4 dicembre è francamente impossibile, però oggi, alla luce della relazione del segretario che ha dato un segnale di apertura, alcuni di noi sono intervenuti, me compreso, per chiedere che ci sia la disponibilità e la volontà di una proposta politica del Pd sul merito della nuova legge elettorale». 

L’OMBRA (TEMUTA) DELLA SCISSIONE E I TIMORI DI BERSANI

Tradotto, tutto si deciderà sui tempi. Quelli che Renzi non sembra però voler accelerare. Perché il premier è ormai convinto che l’Italicum vada cambiato, con lo stesso giudizio della Consulta che incombe. Ma come e quando, vorrà essere lui a deciderlo. Così l’ombra della scissione resta alla porte del Nazareno, evocata dallo stesso Cuperlo nel suo intervento: «Ora dobbiamo restare uniti, per ricostruire un centrosinistra di governo. Dopo, se necessario, ci divideremo». «Sarebbe inutile, oltre che senza consenso nel Paese. Spero non avvenga», replica invece Piero Fassino ai microfoni di Giornalettismo.

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Sulla stessa linea sono in realtà anche i bersaniani, con l’ex segretario che non vuole cavalcare l’ipotesi di una rottura finale. Uno scenario allontanato dalla Ditta, convinta che la partita vada condotta dentro il Pd, anche dopo il 4 dicembre, anche con due posizioni differenti alle urne. Certo, il dialogo della minoranza con Sinistra Italiana resta aperto, soprattutto sul referendum. Ma l’idea di una federazione delle sinistre, nel caso di scissione al Nazareno, non convince. Con Bersani e Speranza che non hanno alcuna intenzione di andare via dal Pd. «Ci dovranno cacciare per farci uscire», spiegano dal fronte bersaniano. Ma la paura che tutto imploda resta. Un timore che sembra riecheggiare anche nelle parole di Speranza, tattiche, in Direzione: «Verrà un giorno dopo il referendum, e vorrei che il mio partito restasse unito». Per ora l’ormai “mitica” faida finale è rinviata. Ancora una volta.

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