Assalto all’Italicum

24/06/2016 di Alberto Sofia

Segnali, avvertimenti, incidenti parlamentari da «prima Repubblica», minacce più o meno palesi. Superato lo scoglio dei ballottaggi, il grande assalto all’Italicum è ormai partito tra le aule parlamentari e i palazzi romani. È un fronte eterogeneo, trasversale, che va dalla minoranza Pd fino all’universo centrista in piena fibrillazione, con Area popolare-Ncd e verdiniani su tutti, quello che punta a cambiare una legge elettorale mai digerita. E che per la prima volta rischia di far scricchiolare pure la tenuta di quel renzismo mai così in affanno dopo la netta sconfitta dem alle elezioni Comunali.

In fondo, non era un caso che il premier avesse tentato di sminuire l’impatto delle Amministrative. I rischi alle urne era prevedibili, i disastri di Roma e Torino, con i trionfi a 5 stelle, hanno trasformato la tornata in una disfatta o quasi per i vertici del Nazareno. Un tracollo che complica a dir poco la strada che porta alla “battaglia delle battaglie” del premier: lo spartiacque della legislatura, il referendum costituzionale.

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MINORANZE PD, VERDINI, CENTRISTI (E NON SOLO): OBIETTIVO LEGGE ELETTORALE

Certo, perché la strada delle riforme non potrà che incrociarsi con il destino della stessa legge elettorale (a doppio turno), più volte blindata da Renzi, rivendicata come strumento per assicurare la governabilità. Ma con il premier più debole, dopo il passaggio amaro delle urne, da più parti si aspetta ora un segnale da Palazzo Chigi. Un’apertura verso la modifica di quel premio di maggioranza alla lista inviso ad oltre mezzo arco parlamentare. E di una legge sulla quale si giocheranno i destini politici di tanti peones e partiti tra le aule di Montecitorio e Palazzo Madama. Tradotto, tutto torna nelle mani del premier.

Non è un caso che, a poche ora da una Direzionale nazionale mai così attesa, al Nazareno il clima resti quello della più classica faida tra correnti. Tra richieste di dimissioni lanciate al presidente Matteo Orfini da membri del governo (Madia) e difese dei vertici (Guerini), la minoranza Pd preferisce però guardare altrove. Né sbilanciarsi, al di là di qualche provocazione di Gotor, sulle sorti del presidente dem che, disastro romano parte, è vittima dei primi posizionamenti interni tra le diverse anime della maggioranza renziana. Non è Orfini l’obiettivo di Speranza e Bersani. Almeno a parole, la Ditta si dice pronta a minacciare la tenuta del governo sulle questioni sociali: «Niente più fiducia in bianco», è l’avvertimento del leader in pectore della minoranza. Ma i vertici non ci credono. Anche perché è chiaro che le priorità siano altre.

MINORANZA PD TIMIDA, MA SENZA MODIFICHE ALL’ITALICUM È PRONTA A VOTARE “NO” AL REFERENDUM

L’obiettivo resta proprio l’Italicum, l’arma che la vecchia Ditta può usare come minaccia è invece il referendum costituzionale. Ma, almeno per ora, tra i big bersaniani nessuno intende esporsi troppo «Non è questo il momento di parlare di legge elettorale», schiva il tema Roberto Speranza. «Quando prenderemo una decisione chiara? Noi abbiamo votato le riforme, non abbiamo votato l’Italicum. Già questo è un segnale. Renzi dovrebbe rasserenare il clima se non vuole un’altra disfatta», provoca Davide Zoggia. L’unico che si era spinto fino a chiedere le dimissioni di Renzi, ignorato dal resto del gruppo. «L’Italicum? Questione aperta», aggiunge pure il bersaniano Federico Fornaro.

Un coro di avvertimenti, ma più o meno timidi. Perché non arrivano al nodo centrale. Quello invece evocato, senza mezzi termini, dal governatore pugliese Michele Emiliano. Un altro che si muove da “leader” e che all’HuffPost aveva chiarito di voler vincolare il “sì” alle riforme proprio al cambio della legge elettorale. Né in casa Pd la minoranza segue il piano oltranzista di Massimo D’Alema, già posizionato sul “no” per far saltare l’esecutivo. La distanza tra le anime della sinistra dem resta, la vecchia Ditta continua a snobbare il lìder Maximo, come già accadde nella convention di Perugia, nel primo passo dell’investitura di Speranza verso il Congresso.

Certo, la tentazione è forte. E tra il detto e non detto, è chiaro che l’obiettivo sia ottenere quelle modifiche, a costo di non votare a favore alla consultazione di ottobre: «Ora ci sono spiragli anche per il premier. Renzi sa che gli converrebbe, altrimenti consegneremmo il Paese a Grillo. Magari dovrà soltanto aspettare il momento opportuno, quando da più parti partirà il pressing», confida un altro big a microfoni spenti. E se il premier si rifiutasse? «Allora è chiaro che votare sì al referendum sarebbe complicato. E “complicato” sarebbe un eufemismo…», si lascia sfuggire.

L’ASSALTO DELL’UNIVERSO CENTRISTA, GLI AVVERTIMENTI DI VERDINI E DELUSI ALFANIANI IN AULA E LE FIBRILLAZIONI DI NCD

Quel che è chiaro è che ora le spinte trasversali per modificare l’Italicum saranno incessanti. Ma, almeno per ora, in casa renziana prendono tempo: «Non è un tema in agenda». In realtà qualche crepa nel muro renziano comincia a emergere, dopo i “consigli” di Fassino a “riflettere”. Tanto che lo stesso Emanuele Fiano, pontiere del premier, ha anticipato che i vertici dem avevano «pensato l’Italicum in un momento diverso» e che «una riflessione seria e aperta» sarebbe stata fatta da Renzi a partire dalla Direzione. Magari, ricordando semplicemente che il Parlamento può rimettere mano, se ne ha le forze, alla legge. Lo stesso Pisicchio, presidente del Misto, ha presentato una proposta di legge che fa scattare il premio alla coalizione (e non alla lista), dove si prevedono apparentamenti tra primo e secondo turno, e il turno di ballottaggio si disputa soltanto in caso di affluenza al primo turno superiore al 50%. Senza dimenticare che la stessa Corte Costituzionale interverrà sulla legge dopo il ricorso accolto e inviato alla Consulta dal Tribunale di Messina, dopo le eccezioni di incostituzionalità sollevate dall’avvocato Felice Besostri. Dovrebbe essere esaminata il 4 ottobre, a ridosso della data – ancora sconosciuta – dello stesso referendum. Ma non è detto.

Tutto mentre è tra gli alleati di destra del Pd, Area Popolare e l’ALA di Denis Verdini, che sale la tensione interna. E si lanciano segnali al premier. Il motivo? C’è malcontento tra i gruppi, l’incubo è di finire nell’irrilevanza, o di non venire rieletti. C’è Angelino Alfano che fa sempre più fatica a tenere le redini di un gruppo in equilibrio precario e a rischio perenne di scissione. Anche perché, ora che il premier è più debole, nessuno vuol finire trascinato dalla possibile fine del renzismo, qualora il referendum venga bocciato. Tradotto, è l’area delusa di Ncd che si muove tra i corridoi parlamentari. E che prova a riallacciare in Senato rapporti con Forza Italia – ormai lontana dal modello lepenista di Salvini – , con i CoR di Raffaele Fitto, i tosiani, parte degli stessi verdiniani. L’obiettivo comune? Sopravvivere, allargare i confini. Tanto che si parla pure di un possibile nuovo gruppo parlamentare, sul modello “milanese” di Parisi, ma senza il Carroccio.

Se Alfano e i più filorenziani di Ncd non intendono mettere in discussione l’esecutivo, almeno fino a ottobre, l’area di Renato Schifani – con i senatori Esposito e Azzollini tra i più oltranzisti – è invece tentata di minacciare la crisi già a settembre, prima del referendum. Convinta che il rischio di essere trascinati alle urne da Renzi, con la sessione di bilancio alle porte a dicembre, sarebbe di fatto nullo. Tanti altri, come Roberto Formigoni, non vogliono “morire renziani” e guardano verso il ritorno sulla strada forzista di Arcore. E poi c’è il ciellino Maurizio Lupi, convinto a sua volta che il governo istituzionale si esaurirebbe dopo il referendum e che servirebbe un “tagliando” per vedere se esistano condizioni per andare avanti con il Pd per qualche altro mese. E lanciare al tempo stesso un cantiere di centrodestra moderato per le Politiche. Un incontro tra i gruppi è previsto a giorni: Alfano è già tra gli imputati per i risultati mediocri.

POLVERIERA ALA. LA TRUPPA CAMPANA VUOLE GARANZIE

Ma non è soltanto Ncd a essersi trasformata in una polveriera. Anche l’Ala di Verdini, ormai orfana di Bondi e compagna tornati nel Misto, non intende passare per semplice “passacarte” dopo la freddezza di Renzi scatenata dai flop delle alleanze “laboratorio” Pd-Ala. Il bottino pessimo ha fatto abortire qualsiasi tentazione di “Partito della Nazione” e la truppa campana è quella meno disposta a portare voti alla causa del premier senza ricevere garanzie. Garanzie che fanno rima proprio con Italicum: «Renzi deve cambiarlo, altrimenti liberi tutti», spiegano stizziti da Palazzo Madama.

Ed è chiaro che pure Verdini, che aveva promesso di tutto a chi si era avvicinato al gruppo per ingrassare le fila di Ala, ora sia in difficoltà. Prendiamo tempo», ordina. Ma i segnali in Aula non mancano. Come nel voto sulle norme antiterrorismo, dove i verdiniani e nove malpancisti alfaniani (su 15 presenti in Aula) hanno fatto andare sotto il governo sull’emendamento dei forzisti Caliendo e Nitto Palma che raddoppiava le pene sul possesso di ordigni nucleari. Di fatto, è un messaggio con doppio destinatario: la coppia Renzi-Alfano. Una piccola “bomba a mano” lanciata contro la solidità del governo. Un esecutivo che, ormai è assodato, si regge sul voto di Ala, oltre che sulla fedeltà di quel che resta di Ncd. Un «pizzino», è invece l’interpretazione provocatoria di Renato Brunetta. Di certo, un messaggio rivolto a Palazzo Chigi: «Senza di noi, il Pd fa fatica pure sul numero legale», rilanciano da Ala.

La tensione è palpabile, gli avvertimenti – temono in casa renziana – rischiano di moltiplicarsi da qui a ottobre. Anche perché Verdini non vuole che Renzi sposti l’asse a sinistra. E l’obiettivo resta quello di impedire che il premier scelga di ricompattare il partito per evitare rischi. Ma con la minoranza dem, così come con Ncd e altri partiti, il punto comune resta uno: modificare l’Italicum. Tra l’altro, la legge perfetta per il Movimento 5 Stelle. Alla fine, anche per Renzi potrebbe non essere così sconveniente. Quasi un assist inatteso.

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