Cinque trucchi per fregare il fisco in Italia

01/03/2012 di Dipocheparole

Il Corriere elenca qualche metodo in auge tra i contribuenti infedeli

Il Corriere della Sera in edicola oggi ci racconta cinque metodi utilizzati dai contribuenti infedeli per evadere le tasse. O meglio, ottenere “risparmi fiscali” con metodi discutibili, che portano aziende e privati a essere formalmente in regola e a ottenere uno sconticino sul dovuto. Spiega Giovanni Stringa che quel labile confine tra comportamenti corretti e sbagliati, tra giusti risparmi e artifici ad hoc, potrebbe diventare più certo e meno valicabile oggi, con la riforma di Monti. Ma vediamo quali possono essere alcune storie di ordinaria elusione:

Caso uno. Un’azienda ha tre stabilimenti produttivi e vuole venderne uno. Con una semplice cessione pagherebbe un’imposta di registro del 3%, ma costituendo una società ad hoc, conferendole lo stabilimento e vendendo l’intero pacchetto (Spa e fabbrica in pancia), potrebbe riuscire a bypassare la tassa del 3%. Caso due. È il cosiddetto leveraged buy out: per i più è un’ostica parola anglosassone, per qualche addetto ai lavori è invece un’interessante opzione taglia- Fisco. Succede quando un’azienda accende un finanziamento, compra un’altra in utile, la incorpora con una fusione e quindi compensa i profitti della preda con gli interessi passivi del predatore: meno reddito, meno tasse.

Valicando le Alpi o navigando il Mediterraneo e oltre, le possibilità naturalmente si moltiplicano:

Complici quei tanti Stati con «regime fiscale più favorevole »: una locuzione che abbraccia tutte le nazioni dove si pagano meno tasse, dai normali Paesi che non hanno raggiunto i livelli delle aliquote tricolori (alte sì, ma solo per chi le paga), fino ai più esotici paradisi fiscali. Nella casistica internazionale rientra (esempio 3) chi si finanzia da una consociata di un Paese fiscalmente più generoso, e lì sposta una fetta di reddito (gli interessi); dalla stessa consociata si possono poi (esempio 4) comprare merci a costi fuori mercato, trasferendole anche in questo caso ricavi e utili. Oppure (caso 5) c’è chi preferisce il ménage à trois: dovendo vendere all’estero i propri prodotti, prima li fa passare per una società consociata in uno Stato dal Fisco leggero, e quest’ultima poi li rivende alle altre consociate nei mercati di sbocco. In questo caso, la società «intramezzo» può comparare a 10 e rivendere a 12, realizzando senza quasi batter ciglio un margine del 20% a bassa, se non bassissima (a seconda della residenza), tassazione.

Intanto, al di là delle parole di Monti, sull’argomento Fisco è appena intervenuta anche al Corte di cassazione:

La quale ha sottolineato che, in determinati casi, l’elusione fiscale può assumere rilevanza penale. Il principio è stato espresso nella sentenza—depositata in questi giorni — con cui la Corte ha riaperto il fascicolo sugli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Al centro del loro caso, la cessione di marchi a una società lussemburghese. Nessuna condanna e nessun giudizio, ma dopo l’annullamento— lo scorso novembre—del proscioglimento dei due stilisti, la palla torna al pm. Altre due recenti sentenze della Cassazione su argomenti fiscali (e con altri protagonisti) hanno stabilito che: anche le aziende con sede legale e oggetto sociale all’estero, ma con cuore amministrativo in Italia, devono pagare le imposte a Roma; e (seconda sentenza) dovranno fare lo stesso anche le «stabili organizzazioni occulte» (e non solo quelle palesi come stabilimenti o filiali) di società estere in Italia. Situazione ancora diversa nel caso Ryanair, appena nato—e quindi ancora senza sentenze o giudizi — sulle piste dell’aeroporto di Bergamo. La direzione provinciale del lavoro della città ha contestato alla compagnia un’evasione contributiva da quasi 12 milioni di euro, per aver assunto con sede di lavoro a Dublino— anziché in Italia—i 650 dipendenti che opererebbero in Lombardia: una mossa che permetterebbe al gigante del low cost di risparmiare, dato che la fiscalità irlandese è molto più leggera della nostra.

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