The Pills – Sempre meglio che lavorare. Già.

In Italia non si crede nell’innovazione, nella sperimentazione, nei nuovi linguaggi.

No, siamo giovani vecchi che sognano sempre altro: spacchiamo l’internet con le webseries? In verità vogliamo il cinema. Siamo maestri di vita e di pensiero in Rete? Vogliamo vendere un libro. Siamo fatti così, è difficile spiegare, certe giornate amare. Come quella in cui tre ragazzi che sono passati da essere un tuo mito personale e profeti generazionali con le loro chiacchiere antimucciniane sul web e attorno a un tavolo (la fierezza dell’indolenza postadolescenziale unita alla disillusione generazionale, mixata al cazzonismo intelligente), passando per uno Zio Gianni che già ti faceva sospettare che si fosse in una fase calante e una prima puntata di una trasmissione tv avvilente, si scoprono pessimi sul grande schermo. Sei arrivato a guardare The Pills – Sempre meglio che lavorare, con il desiderio segreto di riscoprirli come un tempo, ti ritrovi di fronte a un raffazzonato autoritratto cinematografico, incapace di un ampio respiro ma solo di attaccare tante idee di puntate brevi a una labilissima idea di scrittura, così ingenua ed elementare da sembrare un’autoparodia. E soprattutto a uso e consumo dei soli fan che siano dentro il Grande Raccordo Anulare, anzi forse giusto dentro le mura. Ok l’identità, ma qui si tende ad escludere chi non conosce la romanità e chi non conosce loro con un linguaggio che a volte hai l’impressione sia quasi in codice.

THE PILLS – SEMPRE MEGLIO CHE LAVORARE, LA TRAMA –

Luca (Vecchi), Luigi (Di Capua) e Matteo (Corradini) sono i soliti tre bamboccioni, alla ricerca di una spensieratezza perduta. Anzi, protetta. Perché attorno al loro tavolo, ai loro caffé, alle loro canne, ergono un muro che li separa dal lavoro, dalle responsabilità, dalle donne. In questo film scopriamo che erano così (in tutti i sensi) anche da piccoli e che forse qualcosa sta cambiando. E l’età adulta è un virus da debellare, da combattere, da respingere. Anche se ha il volto e la bellezza di Margherita Vicario, anche se ha l’insinuante faccia di un padre in crisi di mezza età o quella di un amico e sodale di mille avventure ora tassista, sposato e padre. Noi assistiamo a questa (r)esistenza.

THE PILLS – SEMPRE MEGLIO CHE LAVORARE, RECENSIONE –

Insomma, l’esordio dei The Pills al cinema è una delusione. Mi direte “Sai caro amico, non sono d’accordo, parli da uomo deluso”. Sì, forse. Ma il problema è che se sei straordinariamente bravo a fare una cosa – e magari ti attraversa il sospetto che una piccola crisi creativa si stia affacciando – non dovresti affrontare una sfida complessa come il cinema. Perché è un linguaggio forse persino troppo vecchio per te, perché il tuo talento potrebbe mal adattarsi al nuovo mezzo. E non c’è nessuno snobismo in questa considerazione, quello che vale per monitor e grande schermo, vale anche per teatro e Settima Arte, per dire: Lavia è un maestro a teatro, ma al cinema non rende, di Servillo e Cecchi, capaci d’essere campioni sul palco come davanti alla macchina da presa, ce ne son pochi.

Ma ormai sembra che quando si ha il coraggio e il desiderio di sperimentare in tv o sul web, si debba poi per forza passare per il grande schermo. Ma per un Pif o un Capatonda che riescono a interpretare il passaggio come un salto di qualità, tanti, troppi (da Zoro ai The Pills, appunto) ne escono ridimensionati. Piace la voglia di giocare con lo strumento creativo e tecnico di Vecchi, come regista e attore (l’unica vera nota positiva del film), citando Gabriele Muccino (ma anche Silvio), e persino qualche movimento di macchina all’americana. Non è male neanche il momento della love story Luca Vecchi-Margherita Vicario, forse perché ha in sé il germe di un soggetto gustoso e paradossale, forse perché lì, sia pure tramite stereotipi, senti profumo di una grammatica cinematografica più pensata ed elaborata. Ma anche là, il rifiuto del lavoro che poi diventa droga (non ce la faccio più con questo part time, mi sta uccidendo!), sorta di Zalone rovesciato – e condividono con Checco anche il produttore Pietro Valsecchi -, cosi come la trasformazione “bangla”, rimane pretesto e mai sentiero narrativo. Tanto che poi la conclusione è frettolosa, inefficace e, appunto, pretestuosa.

Tutto questo non toglie nulla all’abilità e alla bravura di questo gruppo che ha saputo innovare un linguaggio già molto moderno, inserendovi acume e provocazioni. Ma se poi si vogliono dismettere i vestiti casual e mettersi giacca e cravatta, forse bisogna passare del tempo a imparare come portarli. E resistere alla tentazione di cavalcare l’onda del successo e dei treni che potrebbero non passare più. Non basta un’ottima colonna sonora (dai Cani a Calcutta), una discreta fotografia né la buona interpretazione, soprattutto sul lato della commedia e del paradosso, di Margherita Vicario (“Luca, come here, nun fa frocio” è una delle rare battute che fanno ridere, ma è aiutata da un personaggio “facile”), per portare a casa la pellaccia.

Che peccato. Sognavano di essere delle star assolute, forse, rimangono, per ora, pillole di stelle, quelle dei trailer e delle clip promozionali (a proposito: nel film non troverete Morandi, né Pasotti, Argentero e Santamaria, ma di sicuro sono le cose migliori del film: e nel film vero non ci sono). E va bene così, perché chi è Bolt non può fare il maratoneta e viceversa. Ma entrambi, nella loro specialità, possono ambire all’oro olimpico. E quello del primo non varrà meno di quello dell’altro.

 

Share this article