Marino decaduto: a Roma prove generali di Partito della Nazione

30/10/2015 di Alberto Sofia

Non c’è la mano di Denis Verdini, questa volta, ma metodi e formule sono a dir poco simili. Così come l’ex sodale del Cav ha blindato le riforme di Renzi al Senato, anche al Campidoglio è servito un salvagente del centrodestra al Pd per licenziare l’ormai ex “sindaco-marziano” Ignazio Marino. Una santa alleanza” a 26 firme: quelle dei 19 consiglieri dimissionari dem, di Centro democratico (Parrucci), Ncd (Cantiani), destre (i due fittiani Cozzoli Poli e Barbato) e della Lista Marchini. Un’intesa trasversale, davanti al notaio, che ha le sembianze di quel Partito della Nazione  già spauracchio della minoranza Pd tra le aule parlamentari.

Una metamorfosi, già realtà in diversi territori della penisola, che si materializza anche nell’Aula Giulio Cesare di Roma Capitale, pur di chiudere un’amministrazione mai amata dal nuovo corso del Nazareno. Un disegno che qualcuno, anche in casa dem, vorrebbe ora ripetere alle urne, al di là delle smentite dei vertici. Magari al ballottaggio, inevitabile, sondaggi alla mano. Come? Salendo sul carro di Alfio Marchini, il rampollo figlio di costruttori, corteggiato da destra (Berlusconi su tutti) a sinistra. E considerato forse l’unico in grado di battere il M5S. Almeno per ora.

MARINO DECADE, A ROMA PROVE DI PARTITO DELLA NAZIONE –

Prima, però, c’era da scrivere la parola fine alla telenovela Marino. Cambiano i palazzi romani, cambiano gli “esecutori” materiali. Non il metodo scelto dal premier per evitare l’implosione interna, dopo le dimissioni ritirate dal sindaco ribelle, spinto verso la decadenza a colpi di dimissioni dei consiglieri. Non bastavano le 19 firme degli eletti Pd, così come precari erano i numeri della maggioranza di governo senza la stampella verdiniana a Palazzo Madama sul Ddl Boschi. È bastato replicare l’operazione scouting anche a Palazzo Senatorio per chiudere un accordo dal sapore trasversale. E mandare a casa quel sindaco che si era ostinato, nonostante gaffes, errori, l’avviso di garanzia dalla magistratura e di sfratto dal proprio partito, a restare alla guida della Capitale.

MARINO DECADE, PD CON CENTRISTI, DESTRE E MARCHINI –

No, Marino non si presenterà il 5 novembre con la fascia tricolore al processo di Mafia Capitale, così come sperava il chirurgo-dem. Per Renzi e Orfini non c’era altro tempo da perdere. E sulla linea della sfiducia non hanno cambiato idea, senza farsi troppi scrupoli o imbarazzi nel servirsi delle firme di centrodestra per silurare Marino. «Ci ha mentito, ho dato la mia lealtà a un bugiardo, sapeva già da mercoledì di essere indagato», ha attaccato l’ex assessore Stefano Esposito dopo la notizia dell’inserimento del sindaco nel registro degli indagati, per il caso “scontrini” (mai chiarito del tutto da Marino), con l’accusa di peculato. Un’intransigenza sul versante giudiziario insolita per il nuovo Pd di Renzi: quello per cui “non si chiedono le dimissioni per un avviso di garanzia“, tanto da lasciare al loro posto i sottosegretari indagati del governo.

È arrivata così l’ora del congedo per Marino, il sindaco-chirurgo dalle dimissioni prima annunciate e poi ritirate. Delle condizioni politiche che non c’erano più. E poi, all’improvviso, da voler accertare. Incartato nel ruolo di “vittima”, nella sensazione del complotto ai suoi danni. Paga furbizie ed errori (non pochi), l’aver ascoltato, volente o nolente, poco la città. Percepito, come ha ammesso lo stesso sindaco, come chi non voleva «dialogare e non voler condividere queste scelte con la città, che talvolta ha così ha percepito di subirle». Ma non solo. Marino, seppur inseguendo la linea della discontinuità, della trasparenza e della legalità ed estraneo a qualsiasi contestazione su Mafia Capitale, non ha mai spiegato come abbia fatto a non accorgersi di come la cupola con a capo Buzzi e Carminati (e non solo) continuasse a “governare”, di fatto, Roma, prima che emergesse l’inchiesta.

Alla fine, Marino si è incartato tra viaggi in America e l’affaire scontrini, per il quale rivendica la propria innocenza. Sarà la magistratura ad accertare. Dal Pd, invece, nessuna apertura per l’ex sindaco:n é l’onore delle armi da lui auspicato, né la possibilità di chiarire di fronte al Consiglio. Al Nazareno hanno preferito una grande ammucchiata con centristi e destre per delegittimare Marino e farlo decadere. Scelta che dalla minoranza del partito hanno mal digerito: ma, al di là di qualche parola di Cuperlo e Speranza, nessuno si è speso troppo per spingere il partito a spiegare i motivi della crisi politica e perché non si potesse più continuare. E ora, per il Pd, il rischio è di venire travolto alle urne.

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L’ORIZZONTE URNE, MARCHINI E LA CORNICE DEL PARTITO DELLA NAZIONE –

Non è un caso che al Nazareno, di fronte a sondaggi interni che assegnano al Pd una soglia di consenso che non sorpassa il 10% , trovare un candidato per le urne future sembra un’impresa. E non mancano i nomi avanzati, come quello di Beatrice Lorenzin, (targata Ncd, partito in implosione, ma ormai “renziana”) che sembrano voler ripercorrere lo stesso orizzonte del “Partito della Nazione”. Senza dimenticare chi spinge per tentare l’operazione di convergenza con Marchini. Da tempo c’è già Berlusconi a flirtare con il consigliere imprenditore: lui non si nega, ma si tiene ancora le mani libere. Perché, in fondo, alle comunali c’è anche la possibilità dell’apparentamento (non previsto a livello nazionale dall’Italicum) al secondo turno. E parte dei voti dem o forzisti potrebbero anche arrivare a favore di Marchini in seguito, al ballottaggio. In un’inedita partita tra il consigliere e il M5S. Al momento, al Pd sono bastate le due firme della sua Lista per licenziare Marino. Domani, chissà.

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