Riforme, altro che Vietnam. Renzi incassa, opposizioni irrilevanti. E Napolitano apre l’affaire Italicum

I numeri più larghi, nel giorno più importante. Non è ancora arrivato, per Renzi, il traguardo finale delle riforme costituzionali. Eppure, aver superato indenne e a larga maggioranza (con 179 sì) il passaggio precario di Palazzo Madama sembra già una ipoteca decisiva sul completamento di un processo lungo, atteso da decenni, come quello del superamento del bicameralismo perfetto. Può esultare, il premier. Perché quel Senato che evocava i fantasmi del Vietnam parlamentare ha alla fine ceduto. E, al di là dei conflitti mediatici e delle minacce estive, senza troppe resistenze. Anche perché la minoranza bersaniana del Pd, partita battagliera, ha preferito la soluzione del “compromesso“. Incassando poco sui nodi dell’elettività, delle garanzie e dei contrappesi, rispetto alle richieste e denunce iniziali. E le stesse opposizioni, frammentate ed eterogenee, hanno mostrato di avere numeri irrilevanti. Incapaci di coordinarsi, tra distinguo e diverse sfumature di contrarietà al disegno di legge Boschi. A volte, andando pure a “soccorrere” Renzi, come fatto da Forza Italia sull’articolo 17.

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RENZI ESULTA, MINORANZE-OPPOSIZIONI QUASI IRRILEVANTI –

Ha retto, nonostante qualche piccola defezione tra Pd (Tocci, Casson, Mineo) e Ncd, lo schema della maggioranza renziana. Allargata e blindata, per vanificare eventuali resistenze interne, dal tandem Lotti-Verdini e dallo scouting tra i gruppi parlamentari. Alla fine, numeri alla mano, il salvagente dei transfughi ex forzisti, cosentiniani e lombardiani guidato dall’ex plenipotenziario azzurro non è stato nemmeno decisivo. Non a caso, dalla maggioranza hanno rivendicato come «anche senza i voti di Ala, sarebbe stata superata la soglia psicologica dei 161». Ovvero, quella maggioranza assoluta che sarà necessaria nella seconda lettura di Camera e Senato. Saranno passaggi più rapidi. Niente emendamenti, ma un semplice voto favorevole o contrario sugli articoli e sul disegno di legge. Prima di quel referendum confermativo – previsto nell’autunno del 2016 – con il quale Renzi si giocherà tutto. La propria credibilità politica, la sua stessa leadership, il proprio futuro. Parola ai cittadini, prendere o lasciare. E allora, provocano da tempo i suoi fedelissimi, sarà «curioso vedere come si comporterà qull’armata brancaleone composta da M5S, Lega, Forza Italia, Sel e altri cespugli. Unita, forse, soltanto dal no alle riforme»

I NUMERI DI VERDINI E IL DRAMMA DELLA MINORANZA DEM –

Per ora, Renzi può godersi un’altra vittoria. Parziale, ma fondamentale. Anche perché simbolica. E da poter rivendicare di fronte alle istituzioni Ue, prima del Consiglio europeo del 15 e 16 ottobre. Il motivo? Non è un mistero che il premier si giochi tra Bruxelles e Strasburgo una partita ancora più complicata. Quella della flessibilità sui conti da tempo rivendicata, con una possibile disputa sulla legge di stabilità ancora sullo sfondo. In attesa, Renzi ha incassato quanto si aspettava. Voleva il via libera al Ddl Boschi prima dell’inizio della sessione di bilancio, per mostrare il volto di un Paese che finalmente «cambia, rende moderne le proprie regole». I tempi sono stati rispettati. E rinviando pure il temuto redde rationem interno al Pd, seppur il clima nel partito resti da mesi quello del Congresso permanente. «Bersani? Si era spinto troppo avanti, rischiava di trovarsi di fronte a un bivio pericoloso. Non poteva rompere, ha salvato la faccia, con una mediazione che somiglia molto a una resa», attaccano dal fronte dem.

Gotor, Chiti, Corsini & soci, invece, rivendicato una lettura differente. «Non sarà la legge perfetta, tutt’altro. Ma abbiamo ottenuto dei netti miglioramenti: quella dei Consigli regionali sarà una semplice ratifica, gli elettori continueranno a decidere. E su funzioni del Senato e organi di garanzia il ddl è stato corretto», spiegano. Eppure, l’elezione diretta sbandierata era un’altra cosa. E c’è ancora chi ricorda quando lo stesso Bersani evocava la “torsione plebiscitaria” o i pericoli di “deriva autoritaria“. Tutto ora sembra dimenticato. Tranne l’ombra di Verdini. «Non si sarebbero fatti scrupoli a sostituirci con i loro voti, ma siamo stati noi determinanti», continuano i dissidenti dem. Eppure, anche se (almeno per ora) i verdiniani restano fuori dalla maggioranza e (per poche unità) non sono risultati decisivi, la stampella per il premier è stata a dir poco utile. Tanto che Verdini e i suoi sodali già scalpitano per prendere il posto di quella sinistra dem che li considera degli “impresentabili”. Sempre più in imbarazzo, soprattutto ora che l’ex coordinatore azzurro è passato ufficialmente alla corte di Renzi, votando le riforme dopo l’addio a Berlusconi e a Forza Italia. 

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Le proteste di Scilipoti in Aula contro Napolitano (ANSA)

FORZA ITALIA IN CRISI D’INDENTITÀ –

E il partito del Cav? Al di là del voto finale, resta la crisi d’identità di un partito passato in poco più di un anno dalla condivisione delle riforme, all’indecisione se limitarsi a votare contro, non partecipare al voto o spingersi fino a lasciare l’Aula. Per delegittimare una riforma che, a detta dei forzisti, Renzi ha deciso alla fine di “farsi da solo“. A colpi di maggioranza e con strappi regolamentari. Alla fine, dopo una riunione tesa dei gruppi, Fi ha scelto una sorta di Aventino a metà: il gruppo non ha votato, ma una parte è uscita fuori (come Lega e M5S), un’altra ha lasciato i banchi, ma è rimasta nell’emiciclo (come fatto anche da Sel). Piccole, poco sensate, sfumature. Un compromesso con il quale sono state coperte quelle resistenze presenti in un’area del partito che ha poco digerito il repentino cambio di rotta imposto da Berlusconi. Uno strappo maturato dopo l’affaire Quirinale, con la mancata elezione di un presidente condiviso e le ambizioni di piena agibilità politica del Cav naufragate. «Preferivo votare no? Mi sono rimesso alla decisione del gruppo», ha spiegato Franco Carraro. «Aventino? Ma no, quello è quando non si partecipa ai lavori. Noi non abbiamo solo votato», ha aggiunto Matteoli. Certo è che la decisione è stata sofferta: lo mostravano i volti tesi, in Aula, di chi non voleva saperne di inseguire i metodi della Lega. E che ora teme di finire nella morsa di Salvini. «Che futuro possiamo avere insieme al Carroccio?». Non a caso c’è chi già sulle riforme ha votato in dissenso: come Riccardo Villari e Bernabò Bocca, che hanno sostenuto il Ddl Boschi. «Ma restiamo nel partito», hanno spiegato. «Questo è tutto da vedere…», replicava il senatore D’Alì assistendo ai loro interventi fuori dall’Aula. Anche perché i maligni continuano a sussurrare come Verdini insista per farli entrare dentro Ala, ancora in pressing sul gruppo forzista.

OPPOSIZIONI IN ORDINE SPARSO –

Così, Renzi può esultare non soltanto per aver incassato un passaggio decisivo sulle riforme. Ma anche perché i suoi avversari, a destra come a sinistra, stentano. Fi, Lega e Fdi faticano a trovare una linea comune, al di là delle dichiarazioni di Berlusconi e Salvini. E, dall’altra parte, anche quella “cosa rossa” annunciata dai vari Fassina, Civati, vendoliani, Altra Europa con Tsipras ed ex pentastellati resta un mistero. «Ritardo sui gruppi comuni? Potremmo anche farli a breve, ma senza una strategia comune dove andiamo?», ammettono fonti parlamentari. Divisi anche in vista delle amministrative, tra chi (come Civati) vorrebbe chiudere col Pd e chi (una parte di Sel) vuole mantenere viva una logica di centrosinistra. Almeno in quei territori dove alle ultime comunali vinsero gli “arancioni“. «Dobbiamo continuare a dialogare almeno con quel Pd non renziano. Altrimenti ci auto-condanniamo all’irrilevanza», spiegano.

Riforme Senato Verdini Napolitano
Verdini omaggia Napolitano a Palazzo Madama (ANSA)

LE RIFORME DI NAPOLITANO E L’AFFAIRE ITALICUM RIAPERTO –

Resta il M5S, in piena logica di contrapposizione con il Pd. I penstatellati sembrano gli unici, sondaggi alla mano, che in un’eventuale ballottaggio alle nazionali, potrebbero insidiare Renzi. Un timore condiviso anche dal presidente emerito Giorgio Napolitano. Il vero “padre” della maggioranza e delle riforme. Le stesse per le quali l’ex capo dello Stato accettò lo storico secondo mandato al Colle. Non ha voluto saltare, Napolitano, il passaggio di Palazzo Madama, prendendo la parola in Aula, nonostante le contestazioni di M5S, Forza Italia e Lega che sono uscite al momento del suo discorso «per delegittimarlo». Contro di lui si era scagliato poco prima anche Berlusconi con i suoi. «C’è stata complicità fra Napolitano e ciò che determinò le mie dimissioni da Palazzo Chigi nel 2011». Di fatto dando il via libera allo sgarbo in Aula degli azzurri, gli stessi che avevano contribuito in modo decisivo alla sua rielezione al Colle.

Ma l’ex capo dello Stato non si è scomposto. Anzi, le sue parole hanno aperto già nuovi scenari: «Dopo l’approvazione del ddl sulle riforme bisognerà dare attenzione a tutte le preoccupazioni espresse in queste ultime settimane in materia di legislazione elettorale». Tradotto, una “benedizione” per riaprire il dossier Italicum. Aprendo al ritorno al premio di maggioranza alla coalizione (anziché alla lista) o quantomeno alla possibilità di apparentamento. Modifiche che metterebbero d’accordo tutti o quasi. Da Ncd a Forza Italia, passando per i verdiniani, fino alla minoranza dem e Sel. E, forse, anche lo stesso Pd, oggi lontano dal 40% delle Europee 2014. E con la grana degli ex Fi che pressano alla porta del suo giardino. I posti sono pochi, molti nomi imbarazzano e un’eventuale alleanza sarebbe più digeribile per l’elettorato.

Ma sarebbe anche un modo anche per provare a “frenare” le ambizioni di governo del M5S, per il quale, al di là delle polemiche mediatiche, l’attuale versione dell’Italicum 2.0 resta la più conveniente. Il segnale è stato lanciato da Napolitano, ora sarà Renzi a doverlo raccogliere. «Ancora è troppo presto», replicano i suoi, con il premier che intende prima veder definito il prossimo quadro politico. Senza dimenticare come l’Italicum dovrà comunque affrontare il vaglio della Consulta, secondo quella valutazione preventiva richiesta dalla minoranza Pd e fatta inserire nel Ddl Boschi.

Subito dopo le riforme, Renzi è riuscito anche a incassare l’incardinamento immediato del secondo ddl Cirinnà, nonostante destre e Ncd chiedessero un rinvio al 2016. Si va avanti, tra le proteste. Anche se nei fatti sembra più un atto simbolico. Perché tutto si fermerà subito. E riprenderà solo dopo la stabilità. Altra partita complicata per Renzi e per la sua “rivoluzione copernicana delle tasse” già sbandierata. Con la minoranza Pd già critica, anche per la volontà del governo di portare il limite al contante a 3mila euro, mossa bollata come “un favore a nero ed evasione“.  Sarà una partita lunga. Ma ora Renzi può almeno godere per la partita vinta al Senato. Per una riforma considerata a questo punto alla portata, al di là dei passaggi rimasti (due a Montecitorio e uno a Palazzo Madama) prima del referendum decisivo.

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