Il manifesto del gufo: perché non c’è nulla di male nell’antitifo

08/06/2015 di Boris Sollazzo

Sono un fiero sostenitore del gufaggio. Lo confesso subito. In particolare romanisti e juventini, sui social, desiderano il mio decesso, possibilmente doloroso, lento e spesso associato a quello dei miei parenti stretti (con modalità sempre più fantasiose, devo dire), a giorni alterni. I dispari sono dei bianconeri, i pari dei romanisti. La domenica entrambi.

Di solito accade perché quella che loro considerano sapida ironia o opinione acuta, diventa offesa da lavare con il sangue quando finisce su questa testata, sugli status dei miei account facebook e twitter, o quando comunico via radio o televisione. Ma non escludo che succeda anche il contrario.

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Per farvi capire, sabato sera tifavo Juventus. Perché gufavo Antonio Conte (noi gufi siamo contorti): il ct della Nazionale mi è così antipatico che il pensiero della sua “rosicata” mi dava più piacere del dispiacere che mi avrebbe provocato un trionfo bianconero. Poi, dopo il gol di Alvaro Morata, dopo il coraggio leonino di Buffon, ammetto di essere stato affascinato dal possibile miracolo del più debole. Ma non escludo che quella simpatia passeggera e di cui un po’ mi vergogno, fosse un perverso modo di essere comunque antijuventino, il gusto di considerarli deboli, per una volta.

gufo piccolo

Ma siamo qui per difendere i gufi. Perché il tifo è irrazionalità, passione, battaglia. Ma soprattutto amore. Alzi la mano chi si ritrova mollato dalla sua fidanzata (o dal suo fidanzato) e non desideri, per lei, un nuovo compagno brutto come Rodrigo Taddei, arguto come Maurizio Gasparri, simpatico (e alto) come Renato Brunetta. Se volete essere ipocriti, per carità, potete anche smettere di leggere questo articolo, ma se invece un po’ di onestà intellettuale ed emotiva vi è rimasta, sapete bene che è così. Così è per la Juventus: è la più amata dagli italiani, ma anche la più odiata da tutti gli altri. In ogni città rappresentano la colonia più nutrita dopo (e a volte prima) il bacino della tifoseria autoctona. Juventus e resto d’Italia rappresentano due modi di vedere il mondo: perdere e soffrire contro il vincere facile. Perché per tutto il resto non c’è una famosa carta di credito, ma il potere della famiglia Agnelli. Che, diciamocelo, sono per il nostro povero capitalismo e per la nostra penisola che ha avuto reali da operetta, gli Windsor d’Italia.
Odiarli è facile: come tutti i potenti hanno fin troppi leccapiedi (soprattutto in tv), alcuni che sono più realisti del re (di solito hanno un fischietto in bocca) e hanno problemi nel far di conto (ancora non hanno capito quanti scudetti hanno vinto). Ma sono anche i più bravi, va detto. Nessun altra società ha saputo costruirsi e ricostruirsi a livelli europei come la Vecchia Signora, hanno una mentalità che permette a Sturaro di far paura al Real Madrid. Sanno persino far annullare un gol a Neymar.

Ma non stiamo neanche parlando della Juventus. Il Milan di Berlusconi, l’Inter del triplete, persino il Napoli di Maradona (ricordate il gufaggio ad personam, condito dai vergognosi fischi all’inno argentino, in un Olimpico giallorosso nella finale del mondiale di Italia ’90?) lo hanno subito. La Roma vive momenti alterni: è stata gufata perché forte (con Capello e Liedholm), persino guardata con affetto quando è arrivata più volte seconda di Toto Cotugno, ma quasi sempre il tifo contro arriva dal fatto che tra fine luglio e inizio agosto lo scudetto è sempre loro. E tutti godono nello scucirglielo. E perché sarà pure vero che hanno vinto poco, ma ancora ci fanno scontare quell’Impero Romano che tutto il mondo faceva tremar.

Perché gufare è giusto? Perché è ridicolo che tanti juventini sabato abbiano urlato allo scandalo per le maledizioni precedenti alla partita con il Barcellona e per i festeggiamenti che ne sono seguiti? Per tanti motivi. Quelli irrazionali li abbiamo già elencati, che con la Juventus diventano ancora più “giusti”: Agnelli e soci non fanno nulla per essere simpatici, Pavel Nedved da Totti a Moreno (non Byron, ma il rapper) entra sempre a gamba tesa, Bonucci è gradevole, nelle interviste post partita, come un cucchiaio di olio di ricino. E nella storia, ci sono sempre stati epigoni adeguati, lo sappiamo.
Non si parli di nazionalismo. “Si tifa sempre per le italiane”. Ma chi lo fa all’estero? A Madrid al gol di Morata c’è stato un boato. A Dortmund hanno festeggiato per il Bayern sbattutto fuori da Messi e soci, pur essendo ancora in lotta per la retrocessione. In Inghilterra non devi neanche uscire fuori da Londra per goderti i sorrisi di chi denigra una delle tante squadre della capitale inglese, perdente il giorno prima. Se il Paris Saint Germain viene sconfitto, festeggia tutto il resto della Francia.
Non è il mondiale, è una battaglia di colori, di cuori, di storie, di miti: se al Palio di Siena vince l’Oca e poi cavallo e fantino trionfanti vanno a fare il Prix d’Amerique, le altre contrade desidereranno una turpe sconfitta per i due, pure se dovessero affrontare un plotone di snobissimi parigini. Il calcio è un amore che ogni 10 mesi si rinnova, che si forgia nelle sconfitte, proprie e altrui. Non sarebbe così bello questo lo sport se la Fiorentina (come dimostra il racconto di Bianchi e Cappellini nel bellissimo libro #finchévivrò, che a un certo punto celebra un 4-2 dei viola contro la Juve come fosse uno scudetto) non si sentisse di salvare una stagione battendo i nemici di sempre, che gli han rubato uno scudetto e una coppa Uefa (sì, perché care zebre, siete la squadra italiana più forte di sempre, ma anche quella più “sostenuta”, anche se provate sempre a negarlo).

Non vi basta? Radical chic e patrioti vi vogliono ancora insegnare a vivere? Allora sconfiggeteli con la logica. Se l’odio sportivo atavico non basta, se l’antipatia neanche, se ciò che una squadra rappresenta (l’arroganza sabauda che ha schiacciato metà Italia, un capitalismo oligarchico e ingiusto come quello italiano, un’Italia divisa in servi e padroni) non è sufficiente a spiegare a questi benpensanti perché gufare è arte nobile – magari senza fuochi e tricchetracche dopo, avanzati da una festa mancata per la propria squadra, perché esultare per la sconfitta altrui è troppo – allora opponetegli motivi inoppugnabili.

E ci perdoni se prendiamo sempre gli strisciati ad esempio, è l’onere del duplete.
Se la Juventus avesse vinto avrebbe guadagnato ancora di più: in termini di milioni di euro, di ranking, di credibilità e fascino internazionale. Questo vuol dire: più possibilità sul mercato per Marotta e la certezza che il già enorme distacco dalle altre, in serie A, che ha già fruttato quattro scudetti consecutivi, si amplierebbe. Francamente quale tifoso può augurarsi il miglioramento dell’avversario più pericoloso? Avete mai visto Asafa Powell godere dei successi di Usain Bolt? Eppure sono entrambi giamaicani!
Mi direte: se fosse successo tre anni fa, quello che è successo in questa stagione, ora avremmo quattro squadre in Champions League. Vero, ma a me non interessa: il mio Napoli è arrivato quinto in questo campionato.
Se la Juventus avesse vinto, forse quegli arbitraggi un po’ ostili che (almeno) in Europa subiscono, si sarebbero ammorbiditi. E si stancherebbero di meno e li troveremmo sempre troppo freschi in campionato. Non che serva: riusciamo tutti a perderci anche quando mettono Coman e Pepe, ma vale la pena sognare.

Ma poi, soprattutto, chi vi dice che noi gufi professionisti la tiriamo solo alla Juventus? L’unica maglia che abbiamo cucita sul cuore è quella della nostra squadra e se quest’ultima non vince spesso, c’è sempre un buon motivo per avercela con un’altra squadra del tuo paese. Soprattutto abbiamo tempo di farlo, perché la nostra stagione è finita prima.
Ed è giusto così, altrimenti come faremmo a divertirci tanto? L’impressione è che gli juventini non lo capiscono perché per loro, il tifo, è come la vittoria: un hobby. Lo vedi da come esultano, da come per loro conti solo l’albo d’oro. Per loro tutto è aritmetica, di solito con il riporto di due. Scegli la Vecchia Signora per comodità, non per amore. E di solito è un matrimonio di convenienza.

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