Confutazione di Benigni

Questa è una rotonda confutazione del telepredicatore Benigni, delle sue chiacchiere e del fenomeno in sé. Per cimentarmi nell’impresa non mi sono premurato di assistere alle due serate sui Dieci Comandamenti, ma solo di leggere qua e là i resoconti giornalistici e di guardare qualche estratto del programma. «Eh? Come?», dirà qualcuno, «Ti metti a criticare una cosa che non hai neanche guardato? Questa sì che è una bella novità!» Vorrei rispondere: prego, circolare. Ma più urbanamente rispondo: dovrei forse mettere a dura prova la mia pazienza senza alcun frutto e offendere la mia intelligenza, la quale dopo tre decenni e passa di goliardate benigniane non sarebbe ancora in grado di figurarsene in anticipo l’ultima versione? Perciò concludo: prego, circolare. E aggiungo: tranquilli, è solo umorismo.

Benigni trent’anni fa sulle cose di Dio diceva il contrario di quello che dice adesso. Non lo diciamo per contestargli una conversione o un riavvicinamento al Cristianesimo, ma per far notare che lui è sempre lo stesso: concitato, enfatico e gioviale, e nella sostanza perfettamente allineato a quel conformismo progressista che è tutt’uno con la vera nomenklatura del nostro paese. Adesso Benigni dice cose per metà vere, attingendo dalla sapienza cristiana e aiutato da gente ferrata in materia, ancorché politicamente correttissima, cioè allineata al secolo, che lo ha illuminato sugli aspetti “liberatori” della dottrina cristiana, e gli ha suggerito certe parolette strategiche: robe vecchie come il cucco, che dette da lui sembrano però liete scoperte oltre che per la sua verve affabulatoria anche perché il pubblico è ben disposto verso di lui e perché lui è pappa e ciccia con l’establishment culturale e mediatico: un’istituzione, cioè. Ma naturalmente tutto resta furbescamente a metà.

Intendiamoci: qui non si tratta di vagliare l’ortodossia di Benigni – che peraltro lui non rivendica e nessuno gli chiede – o di leggere con malizia espressioni spregiudicate o battute un po’ ardite; è un metodo che non m’appartiene, non fosse altro perché anch’io ho la tendenza a scherzare col sacro. Qui si tratta di dimostrare che le tripudianti, esuberanti eccentricità di Benigni tracciano in realtà un disegno coerente e che Benigni si fa strumento di un’operazione culturale ben precisa.

Cominciamo, però, con un colpo basso: la questione del compenso. Premetto: io sono liberale (non liberal) in economia. E’ un’etichetta impropria e riduttiva ma oggi l’accetto di gusto proprio perché marcata d’infamia o quasi. Lo sono perché sono un fautore della libera economia fondata sulla proprietà privata e su un retto concetto di libertà, non sulla licenza. Capitalismo o mercato sono parole insufficienti a rendere il concetto di libera economia in quanto evocano sistemi, i quali a loro volta evocano meccanismi avulsi da qualsiasi fondamento etico. Capitalismo, anzi, è un termine da respingere in toto: è un “ismo” di conio marxista, con tutte le storture interpretative e propagandistiche del caso. E’ per questo che posso storcere il naso, ma non mi scandalizzo per i compensi milionari che toccano a personaggi dello spettacolo, dello sport o ai pezzi grossi del mondo economico-finanziario. Non solo, sono anche contrario a tetti salariali fissati per legge dallo stato, perché penso siano un rimedio peggiore del male, un altro esempio di quell’interventismo statale che ha ormai storicamente debordato, per motivi tutt’altro che nobili, dai suoi veri scopi, fino a trascurarli per correre dietro a tutto. Il mercato dovrebbe trovare un limite naturale nei diritti della persona, non nella sovra-regolamentazione distorsiva. E in realtà il mercato muore quando il diritto non lo sostiene, in quanto è esso stesso espressione di diritti naturali.

Ciò detto, vi è una stridente contraddizione tra l’entusiasta cantore di Dio e l’oculato artista che contratta compensi milionari per due serate televisive sui Dieci Comandamenti. E’ difficile immaginare un artista riverito e di successo di sessantadue primavere, detentore di un patrimonio presumibilmente calcolabile in svariate decine di milioni di euro, il quale, sopraffatto dalla felicità di aver trovato in Dio un tesoro maggiore di tutti i tesori del mondo, e quindi spinto irresistibilmente a comunicare questa gioia al prossimo, invece di farlo gratuitamente esiga di venir pagato con cifre a sei zeri. Sorridete? Sbagliate. E’ infatti Benigni a presentarsi come tale. E allora delle due l’una: o non crede troppo in quello che dice, oppure considera l’esibizione, legittimamente, una normale, ancorché strapagata, prestazione professionale.  Ed ancora: è conciliabile l’immagine di quest’uomo sopraffatto da una gioia missionaria, dal bisogno insopprimibile di farci partecipi di altissimi tesori di spiritualità – ancora, non sorridete: è lui, ripeto, che si presenta come tale – con le meschine e ruffiane allusioni all’attualità e ai suoi scandali, allusioni naturalmente tutte in linea col sentimento apocalittico-giustizialista che avvelena il nostro paese? Fin dai tempi del suo amore per Berlinguer, Benigni si è mosso artisticamente dentro il cono d’ombra del partito della “questione morale”. Lo ha fatto a suo modo, naturalmente: da simpaticone, da mattacchione, lontanissimo dalla seriosità dei sacerdoti del Sinedrio patriottico-costituzionale, se non proprio giacobino. E tuttavia, nella sostanza, sempre allineato e coperto. E continua a farlo.

La parte più efficace dello show di Benigni è stata quella dedicata ai primi tre comandamenti, incentrati su Dio e sull’osservanza del giorno festivo. Se trent’anni fa Benigni aveva irriso, sempre al suo modo iperbolico, raramente velenoso, alla terribilità e cupezza del Dio veterotestamentario, questa volta ha fatta l’operazione inversa. Un Dio finalmente cordiale e sorridente è diventato una specie di guru. Suo scopo: insegnare a quel testone di uomo come vivere rettamente i grandi doni che gli ha fatti, la vita e il creato; e in primo luogo a liberarsi da affanni spesso meschini e ingiustificati in modo da aprire finalmente gli occhi su quello che di veramente prezioso c’è nella vita e per… per conciliarsi definitivamente col creato nel giorno del riposo, in una specie di estasi panteistica. Un immanentismo confermato dal “colpo di genio” dell’inclusione nella creazione del giorno del riposo, quando invece il giorno del riposo è anticipazione, pegno e metafora del paradiso. Al quadro dipinto da Benigni manca l’essenziale: la prospettiva eterna, la morte e la resurrezione. Attraverso la morte – per usare il linguaggio biblico – «entreremo nel riposo di Dio», atteso dalla stessa creazione, come spiega il poeta S. Paolo: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.» Per il poeta Benigni, invece, tutto si risolve dentro questo mondo: manca l’attestazione di una trascendenza e di una verità.

Stesso schema interpretativo per il quarto comandamento: onora il padre e la madre. Presupposto di questo comandamento dovrebbe essere che ci siano un padre, una madre, e una discendenza che li riconosca: cioè una famiglia naturale, non un genitore uno e un genitore due, nel rispetto di un ordine naturale voluto da Dio, nel quale la genitorialità è intesa come una custodia. Infatti i figli non sono di proprietà dei genitori: sono prima di tutto figli di Dio. Nel custodire i figli di Dio essi diventano (o dovrebbero diventare) ministri di Dio e perciò vanno onorati. Per Benigni, invece, onorando i genitori (e notate, i nonni: piccolo allargamento “panteistico”) si onora «la vita». «E quando penso a me se mi dedico a loro? La risposta è nel comandamento, c’è più vita nelle nostra vita, quindi più piena, quindi più lunga. Dando più senso alla nostra vita ed a quella degli altri». Ma cos’è questa vita? La via, la verità, la vita, che nella persona di Cristo s’incarnano, e che a un Dio e a una realtà ultraterrena rimandano? No, è un sintonizzarsi col cosmo. Anche qui, tutto si risolve dentro questo mondo.

Un umanitarismo enfatico ha caratterizzata la lettura del quinto comandamento: non uccidere. Il “non uccidere” riassume in sé la condanna morale di tutte le forme possibili di violenza e di prevaricazione contro il prossimo, delle quali l’omicidio è solo l’esito radicale. Tra esse però non viene compresa la legittima difesa, intesa nel senso più largo del termine, a livello personale, sociale, nazionale. Ciò significa che sia la pena di morte sia la guerra, a determinate condizioni, senza secondi fini e come extrema ratio, sono moralmente ammissibili. Oggi la Chiesa Cattolica auspica l’abolizione della pena di morte, in quanto ritiene che – oggi – la società ne possa sopportare l’assenza senza pregiudizio per la sua tenuta. La ragione e la carità ci spingono perciò a rinunciare – oggi – a ciò che per millenni in tutto il mondo è stata considerata una crudele necessità. Ma la pena di morte – in se stessa – non si contrappone alla dottrina cristiana. Ne deriva che la pena di morte non entra affatto nel campo del “non uccidere”. Benigni invece ha centrato il suo intervento sul quinto comandamento proprio su questi temi cari a quell’umanitarismo sfatto e senza fondamenta che nella storia si è dimostrato tante volte assai proclive a diventare disumano con sconcertante facilità. «La pena di morte», ha detto Benigni, «rimane perché si vuole mantenere nelle persone un fondo di crudeltà, di aberrazione, è come se dicessero “siete assassini anche voi”». Avrebbe potuto aggiungere: «omicidio giuridico, crimine solenne, vile assassinio, usanza barbara ed antica, il più raffinato esempio di crudeltà», parole usate contro la pena di morte da Robespierre all’Assemblea Costituente due anni prima di dare inizio alla mattanza a legittimi colpi di ghigliottina. Per dire dell’ubriacatura generale, Umberto Folena, su “Avvenire”, è arrivato a dire: «È coraggioso, Benigni, nel negare ogni legittimità alla pena di morte, senza eccezione alcuna, perché non è pacifico né scontato, in Italia dove non c’è come negli Usa dove c’è». Cioè, fatemi capire, sarebbe “coraggioso” da parte di un ricco artista del ricco Occidente parlare contro la pena di morte? No, scusate, rido, perché questa è veramente troppo forte. Se facesse il contrario, piuttosto, magari non lo si potrebbe apprezzare, ma certo non gli si potrebbe negare una certa dose di fegato. In compenso, da parte di Benigni non abbiamo avuta nemmeno una piccola, sorridente, amichevole, non conflittuale, non confessionale, non provocatoria, non truce, allusione alle questioni dell’aborto e dell’eutanasia. Notate che aborto e eutanasia riguardano l’entrata e l’uscita da questo mondo di esseri non ancora nati e di esseri che si considerano “già morti”. Ma se tutto si risolve dentro questo mondo essi restano fuori dalla sospirosa “vita” benigniana, e quindi, per Benigni, non entrano nel campo del “non uccidere”. Si capisce benissimo, invece, l’insistenza di Benigni sul carattere irrimediabile dell’omicidio, sul fatto che una vita non può più essere ridata, sul pericolo dell’auto-estinzione a causa di una guerra mondiale: costituiscono tout-court la fine della sospirosa “vita” benigniana, di quella del singolo e di quella del cosmo. Manca, anche qui, la trascendenza, manca un porto, manca una verità su cui tutto s’incardini.

Il sesto comandamento, il “non commettere adulterio” riassume in sé, invece, la condanna morale di tutte le disordinate condotte sessuali. Calma. State allegri. Qui non siamo talebani. Per dirla con Woody Allen, e parlando al maschile, tutti quanti noi – anche se non metto limiti alla Provvidenza, e anche se faccio fatica ad immaginare un simile fenomeno di innata morigeratezza, tranne appunto un malato o …Lui – tutti quanti noi, dicevo, prima di trasformarci in stalloni formidabili ci siamo allenati molto da soli. Tuttavia un disordine è un disordine, e dietro di sé lascia sempre nell’anima ancora presente a se stessa una piccola o grande traccia di disgusto, a seconda di cosa abbiamo combinato. Noi non scantoniamo e registriamo con teutonica precisione questo fatto. Invece della stucchevole e semi-scherzosa polemica con la Chiesa Cattolica per la riformulazione del sesto comandamento in “non commettere atti impuri”, polemica fuori luogo proprio per quanto sopra espresso, Benigni avrebbe potuto – con sorridente levità, s’intende, per amor di Dio! – battere su questo tasto: che il peccato è il peccato. Invece niente. E dobbiamo ancora parlare della cosa più importante! Il comandamento ci ricorda, infatti, il caso più classico di disordine nella condotta sessuale, alla luce della ben temprata dottrina cristiana: il tradimento del coniuge. Ma qual è il presupposto di questo comandamento? Il presupposto di questo comandamento è che ci siano un marito e una moglie: un uomo di sesso maschile e una donna di sesso femminile, per dirla ancora con teutonica precisione; un maritino e una mogliettina, per dirla con epicurea complicità; in una parola, lo schema classico e vincente: io Tarzan, tu Jane. Ma quanta poesia in quel “io Tarzan”! E quanta poesia in quel “tu Jane”! Non esiste combinazione superiore a questa divina corrispondenza d’amorosi sensi: solo i bruti o i depravati non ci arrivano. Essa significa elevazione, unione e completamento, e ogni superata divisione è un avvicinamento a Dio. Benigni invece sceglie di menare a lungo il can per l’aia. Alla fine sembra ne faccia una questione di civile consapevolezza, nella quale il rispetto per la donna, la responsabilità verso la progenie, la protezione dell’amore («non del matrimonio») fra due persone, tutto questo trova una confusa composizione.

Poi tutto sia fa più scalcagnato e piatto. Arrivato al settimo comandamento, il “non rubare”, Benigni si piega addirittura all’idolo del giorno: populismo giustizialista della più bell’acqua: corruttori, evasori, disoccupazione e tutto il resto della sbobba. L’ottavo comandamento, il “non dire falsa testimonianza” viene declinato in salsa civile. Si parla di onestà e verità, ma sembra di sentire Zagrebelsky, non Dio. Il nono e il decimo comandamento, il “non desiderare la donna e la roba d’altri”, serve a Benigni per chiudere il cerchio della sua riflessione: è un invito rivolto all’uomo a non farsi accecare dall’invidia, a cercare dentro di sé la via per la propria realizzazione. E qual è questa via? Quella che porta all’amore cosmico, hic et nunc: così Benigni (o chi per lui) interpreta l’ “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore ecc.” e l’ “Amerai il prossimo come te stesso”. Ed infatti dice: «Saltate dentro all’esistenza ora. Perché se non trovate niente ora, non troverete niente mai più. E’ qui l’eternità, non ce n’è altra!» Il Decalogo di Benigni non prevede nessuna vita ultraterrena, il che implica che un Dio vero non esiste e che Gesù non è il Figlio di Dio. E dice ancora Benigni: «Non bisogna avere paura di morire ma di non vivere, dobbiamo dire sì alla vita. La vita è molto di più di quello che noi capiamo…». Cioè: la vita – questa vita – conta molto di più di una verità irraggiungibile. E poi conclude citando il grande poeta panteista Walt Whitman: «Che cosa c’è di buono in tutto questo, ahimè, ah vita? Che tu sei qui, che esiste la vita e l’individuo, che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi con un tuo verso». Ancora una volta tutto si risolve dentro questo mondo. Di Cristianesimo nel Decalogo di Benigni non è rimasto un bel nulla. E’ stata un’operazione di svuotamento.

Non stupisce che il santone preferito dalla potente cricca della società civile, il priore della Comunità monastica di Bose, Enzo Bianchi, abbia salutato su “La Stampa” quasi con entusiasmo la performance del suo amico Roberto: «Il lavoro di chi come Benigni presenta come fresche, pronunciate oggi, per noi qui e ora, norme che risalgono a più di tremila anni fa consiste non tanto nel fare esempi più o meno efficaci o divertenti, ma nel togliere l’accumulo di pesantezze depositatosi su un distillato di sapienza che, una volta liberato, sprigiona da solo tutta la sua ricchezza.» E si noti come anche nell’esegesi di Bianchi tutto si risolva ancora una volta dentro questo mondo: «Queste regole solo apparentemente provengono dall’esterno: in realtà sono ridestate a partire dal nostro intimo, da quello che la coscienza ci fa percepire come bene e male. In questo senso Dio non ci impone una legge estranea e ostile, ma ci conferma che quanto di nobile abita il cuore umano è degno di divenire la norma di comportamento, la via regale alla felicità, la risposta agli aneliti più profondi. Così l’essere umano si ritrova paradossalmente a compiere tanti atti di libertà, di scelta adulta, di consapevole responsabilità quanti sono gli atti di obbedienza a “regole” più grandi di lui, regole che mirano all’autentico ben-essere non di un singolo ma di una comunità, regole che creano e alimentano condizioni di pace interiore ed esteriore, regole che riconducono tutti e ciascuno a una giustizia reale, concreta, quotidiana.»

Bianchi comunque pone un problema giusto: «Perché uomini religiosi che hanno per funzione e servizio quello di spiegare la legge di Dio e far riconoscere in essa la libertà, risultano invece così noiosi, pedanti, esperti nel caricare pesi sulle spalle degli altri e così incapaci di farsi ascoltare?» E’ un problema che si pone anche il presidente del Pontificio della Nuova Evangelizzazione, monsignor Rino Fisichella, pure lui, come molti altri alti esponenti cattolici, travolto dall’infatuazione generale: «Sono anni che continuo a dire che la Chiesa ha bisogno di una nuova apologia della fede, ovvero di una nuova presentazione della fede. Benigni ha dato un segno concreto di come la fede può essere presentata». Il problema, però, caro monsignor Fisichella, è che a questo problema se ne accompagna un altro: quella di Benigni è aria fritta che non dà fastidio a nessuno, tranne forse gli anticlericali più tetragoni, ed è funzionale ad un’operazione culturale ben precisa; mentre un Benigni che fosse ortodossa “pietra di scandalo e sasso d’inciampo” non lo manderebbero in onda neanche alle tre di notte.

Ma qual è, alla buonora, questa fantomatica operazione culturale? Questa: la sinistra laico-progressista, che un giorno fu comunista, e che ha sempre dettato l’agenda culturale nella nostra epoca repubblicana, col tempo si è convertita a ciò che prima disprezzava, dal tricolore al Festival di Sanremo, ma solo per impadronirsene e piegarlo al patriottismo-costizionale, cioè alla religione nata dalla Resistenza: ora è il momento di impadronirsi della Chiesa cattolica italiana, sogno ineffabile che si può raggiungere solo trasformandola in una di quelle accomodanti confessioni protestanti del Nord Europa che ormai, non avendo più nulla da dire, si sono trasformate in santuari del politicamente corretto. Di questa nomenklatura i Benigni, o i Saviano, sono gli alfieri istituzionali. Ascoltare questi predicatori di regime diventa un dovere civico. La suggestione fa il resto.

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