La mafia non c’è più

La mafia, al singolare, è sparita dai nostri discorsi. Oggi in pubblico tutti parlano di mafia rigorosamente al plurale: di «mafie», cioè. Questo vezzo fino a qualche tempo fa era prerogativa di giornalisti, intellettuali e politici. Ora è pressoché d’obbligo nei discorsi ufficiali. Lo strano fenomeno lessicale merita un approfondimento. E’ ben vero che di manifestazioni di tipo mafioso ce ne sono varie, ciascuna ben caratterizzata e storicamente individuata. E’ anche vero, però, che gli italiani l’hanno sempre saputo senza sentirsi per questo in dovere di fare i pedanti. Infatti la plebe – «gente» è un termine abusato, dolciastro e anche ruffiano, che cerco di evitare col massimo scrupolo – la plebe, dicevo, nel linguaggio di tutti i giorni tende sempre a preferire le denominazioni semplici piuttosto che quelle articolate, quelle generiche (purché non astratte) piuttosto che quelle specifiche.

Il fenomeno è quindi indotto, non naturale. «Le mafie» cominciarono ad abbondare in maniera sospetta nella bocca dei fanatici della grande setta dell’Antimafia lustri or sono. Suonava artificioso anche allora, ma al poco malizioso gonzo poteva sembrare ancora il frutto genuino di una maggiore consapevolezza in chi da mane a sera si confrontava, in un modo o nell’altro, colla piovra dai mille tentacoli. Poi però divenne un segno distintivo di tutti gli antimafiosi doc, specialmente di quelli più chiacchieroni e piazzaioli. E allora l’umanità non affetta da gonzaggine capì che si voleva inoculare nel corpo dell’opinione pubblica una nuova parola d’ordine. Dietro la sua aria innocente l’espressione “le mafie” nasconde infatti un micidiale potere allusivo. Il messaggio subliminale che tale paroletta veicola al gonzo e al militante è pressappoco questo:

«Di mafie ce ne sono molte, e non ci riferiamo solamente alle caratterizzazioni regionali del crimine organizzato; ma anche alle consorterie che si annidano nel tessuto economico della società e nei gangli del potere politico, le quali, a loro volta, con le mafie vere e proprie sono spesso in rapporti più o meno sotterranei; e ci riferiamo, infine, anche a tutta quella realtà liquida di fiancheggiatori, faccendieri e clientes che in qualche modo partecipano, volenti o nolenti, all’attività corruttiva delle cricche piccole e grandi, del primo, secondo, terzo, quarto, quinto, sesto e settimo livello. In generale possiamo perciò dire che la mafiosità non denota solo la partecipazione a una qualche attività mafiosa o para-mafiosa, ma anche una condizione antropologica o categoria dello spirito che caratterizza il singolo cittadino, e divide la società civile dalla società incivile. Ne consegue che chi parla di mafia al singolare già dimostra una preoccupante predisposizione al delitto contro lo spirito repubblicano.»

Il militante capisce tutto questo al volo e si adegua con entusiasmo alla nuova parola d’ordine; al contrario il gonzo nella sua stranita perplessità si limita ad avvertire oscuramente una vaga minaccia: nulla comprende tranne il fatto che è meglio allinearsi. Ma intanto un linguaggio nuovo s’impone ed imporre un linguaggio significa già imporre una verità ed esercitare un potere, come ben sanno gli artefici del politicamente corretto. Solo che qui l’atmosfera è oltremodo plumbea e i metodi sono un po’ quelli mafiosi del figlio prediletto del Fascismo, l’Antifascismo, di cui l’Antimafia in fondo è un aggiornamento. Non c’è alcun dubbio, infatti, che i seguaci dell’Antimafia si sentano come dei nuovi partigiani; per i quali partigiani il fascismo, inteso come manifestazione morale, è per sua natura eterno: ne deriva così che anche la mafiosità è eterna. Tutto ciò dà al fenomeno dell’Antimafia una connotazione messianica.
Non stupisce allora che l’Antimafia a volte assuma le caratteristiche di quel fanatismo religioso-politico che fu proprio dei movimenti ereticali medioevali. E’ una mobilitazione permanente contro un Male che tutto compenetra. E’ una carovana di puri che gira in lungo e in largo per lo Stivale ad ammonire e a pronosticare flagelli inenarrabili se gli italiani non estirperanno la mafiosità dal loro cuore. E’ un’armata di associazioni che si batte contro un esercito di diavoli: «le mafie», appunto. In una parola, è il «donciottismo».

 

Share this article